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Ieri negli Stati Uniti è stata la giornata di Donald Trump. Il presidente ha infatti pronunciato il suo primo discorso sullo Stato dell’Unione, un intervento pubblico certamente, anche per ragioni storiche, tra i più importanti in senso assoluto.

Nel protocollo ufficiale ingessato, il quale certamente non rientra di per sé nelle corde dell’attuale leader americano, l’evento è stato un check up di fondamentale rilievo per una presidenza nuova e anomala, rivoluzionaria e conservatrice, istrionica e convenzionale.

Davanti al Congresso a Camere riunite Trump ha voluto rimarcare che il suo fine non è alimentare le differenze e divisioni che stano spaccando in due l’opinione pubblica nazionale, volendo al contrario trovare un “terreno comune”, lavorando con tutti i partiti per ottenerlo. Come dire che se le lacerazioni ci sono, queste non sono dovute al presidente ma ai pregiudizi e all’ostracismo che incontra sia tra i Democratici e sia tra i Repubblicani.

Dopo questo fair play non di circostanza, ma adeguato alla tipicità della situazione, Trump ha vantato la sua compatta linea politica: eliminazione degli accordi commerciali iniqui, alla luce dell’American first, lotta all’immigrazione e guerra al terrorismo.

Ostentando poi una coerenza indubbiamente incontestabile, forse tra le maggiori causa delle inimicizie che egli incontra anche a destra, il presidente ha ribadito la non chiusura di Guantanámo, simbolo contrario alla sensibilità Dem, vantando la forza tenuta nel braccio di ferro con la Corea del Nord e con l’Iran.

Interessante soprattutto l’accenno a Teheran, perché Trump si è mostrato paladino dei moti di libertà soppressi dall’autoritarismo teocratico di Al Khamenei, un accenno molto vicino al conservatorismo democratico del famoso Henry Jackson.

Si deve riconoscere, al di là delle personali valutazioni, che indubbiamente il vento di destra che soffia forte nel mondo ha trovato un anno fa la causa prima in questa controversa ma granitica idea presidenziale. Alla fine del secondo decennio del terzo millennio suona dappertutto il motto elettorale con cui Trump ha sbaragliato Hillary Clinton: “Una nazione che non serve i suoi cittadini non è una nazione”.

Recuperare l’idea patriottica e particolaristica dei confini non è una conseguenza accidentale della volontà di cavalcare l’emotività, ma la presentazione di un diverso ordine globale nel quale razionalmente si muova l’azione dai compiti limitati e specifici della politica, garantendo ordine interno ed equilibrio di potenza all’esterno.

Da non trascurarsi, soprattutto per chi è cristiano, la fermezza con cui Trump si è posto davanti ai temi tradizionali della vita, contro aborto e denatalità, e a favore dei valori etici della famiglia naturale, certezze religiose che negli States non sono mai separabili dalla politica, sebbene non siano espressione di un confessionalismo peculiare, ma di un più complesso e profondo spirito sociale.

Al di là delle critiche, che sono generate dal fatto considerevole che il relativismo libertario, in questo anno, ha perduto il suo secolare complesso di superiorità, sconcertando Hollywood e un certo lobbismo progressista, la destra ritrova adesso i suoi granitici punti di partenza, riferimenti permanenti che caratterizzano il naturalismo umano identitario, oltre e contro ogni scivolamento nel secolarismo individualista.

Insomma, piaccia o meno, Trump è la figura guida del conservatorismo globale di questo decennio, e la cui linea politica sta trasformando tutta la destra mondiale. Il ritorno alla comunità, la salvaguardia delle identità locali come bene comune, la riscoperta di solidi basi morali di tipo sociale sono il volano con cui giustificare una radicale defiscalizzazione, la quale presuppone appunto per poter funzionare, come ben spiegava Enrico Corradini, la solidità dello Stato nazionale, senza altri aggettivi, e lo stringersi in sé della realtà collettiva.

Può non piacere ma essere conservatori significa ragionare esattamente così. E il fenomeno Trump toglie il tabù a un senso comune che, sopito sotto la coltre dogmatica di un cosmopolitismo globalizzato, giudica ovunque il potere egoistico come ragione e scopo di interessi finanziari che hanno depresso l’economia vera e reale delle nazioni, deprimendo la sua produttività.

L’economia statunitense, d’altronde, cresce e sembra confermare la caustica diagnosi presidenziale.

Trump, ad ogni buon conto, o vince così, restando attaccato con eroismo alla sua visione politica, oppure ha già perso fin dall’inizio. In questo la sua traversata nella storia non si differenzia per nulla dal martirio subito nel loro tempo da Herbert Clark Hoover, da Ronald Reagan, o, in Inghilterra, da Margareth Thatcher.

guerra fredda cina

Donald Trump e le linee del conservatorismo globale

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