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Il rito della memoria non è sempre così delicato, soprattutto quando si celebra con non adeguata consapevolezza. Così il ricordo di Moro e di quel 16 marzo 2018, che si abbatté sulla vita pubblica e privata degli italiani come lo Tzunami in Indonesia, rischia di stingersi nei frame in bianconero dei tg dell’epoca, mandati con cadenza puntuale ad ogni ricorrenza.

Il ricordo degli eventi significativi della nostra storia in sé è una pratica da incoraggiare, non c’è dubbio, soprattutto in una stagione che si smemora con il ritmo ottuso dell’overdose informativa in rete. Ma un ricordo che non racconta è una pratica sterile, una sorta di dovere della memoria che si consuma senza curiosità e senza partecipazione.

Si muove in felice controtendenza, in questo quarantennale dalla uccisione di Moro e dalla sua scomparsa dalla scena pubblica nazionale, il libro di Marco Damilano, “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia”(Feltrinelli), con una narrazione che contamina lo schema della saggistica politica con un tocco autobiografico riuscito. Facendo di questo libro una sorta di romanzo di una generazione di mezzo, la sua di fresco cinquantenne, partecipe di due mondi, quello che si estingueva drammaticamente con la morte di Moro, quasi l’epilogo di una tragedia greca, e quello delle transizioni e delle liquidità infinite, che stiamo ancora vivendo. La generazione di Damilano, probabilmente, è l’ultima a possedere le ermeneutiche per comprendere entrambi i mondi, e di questo la narrazione mostra di avere consapevolezza. Il fermo immagine sulla scuola elementare di Monte Mario, a poche centinaia di metri da via Fani, dove “c’è la guerra” è il modo più intimo di raccontare e condividere la Storia. Che passava di là, con la forza brutale di un gesto spartiacque, fra “il tutto della politica e il suo nulla”.

Dopo, ci dice Damilano, restano i simulacri della politica e del suo rapporto con la società, ma deprivati del senso antico: partiti, sindacati, associazioni, il significato stesso della mediazione esercitata dai corpi intermedi tra lo Stato-organizzazione e lo Stato-società si illanguidisce per poi scomparire del tutto negli anni a noi più vicini, gli anni della disintermediazione e del protagonismo virtuale e solipsistico della rabbia attraverso la Rete. Le antiche fratture come quella nord-sud, sottoposte a faticose e insufficienti imbastiture e tuttavia fatte oggetto di strategie di intervento, riaperte in modo rovinoso.

Gli anni tra il ‘78 e i primi Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, sono per la politica italiana – e dunque per la società intera, perché la politica aveva all’epoca un ruolo ancora più invasivo di quanto non sia quello odierno – una sorta di coazione a ripetere antichi mantra ideologici, con le ideologie, però, già morenti. È l’epifania del tempo nuovo che si annuncia col craxismo e che avrà nel leader socialista, però, l’interpretazione forte di un politico a tutto tondo. Damilano accosta, non con la prospettiva del notista politico, piuttosto con l’ambizione dello storico che ha avuto la ventura di guardare da vicino la scena pubblica italiana, il lungo arco di tempo dal ‘78 ai giorni nostri, osservando il declino della Dc e della forma-partito, la stagione di Craxi, il percorso del Pci, a partire da Berlinguer, l’avvento del tempo nuovo da Berlusconi a Beppe Grillo e a Renzi, al Grande Fratello, che per l’autore rappresenta la cifra del tempo nuovo della politica. Lo fa attingendo dall’archivio di Sergio Flamigni, dalle carte personali di Moro e dai documenti ufficiali dello sterminato affastellamento di carte che rappresentano l’espiazione cartacea di qualche colpa collettiva annidata nelle piani inferiori della coscienza degli italiani. Un rimosso di labirinti fibrosi.

Ma di questo libro ho amato molto la pista del cuore: è come se Damilano si fosse messo accanto a suo padre Andrea da poco scomparso, che di Moro fu allievo politico, e con lui avesse proceduto alla stesura di una grande e tragica storia italiana. Padre e figlio: struggenti le ultime pagine con le lettere lasciate da Moro ai figli. Lettere tenerissime, dense, persino poetiche nella loro inesorabile drammaticità. Come la lettera al figlio Giovanni, all’epoca sedicenne, sensibile al richiamo dell’impegno politico: “Ammiro il tuo impegno nello studio e rispetto la tua vocazione. Ma la politica ha delle irrazionalità per cui non conviene restarvi al di là dell’esperienza umana”.

Moro le scriveva dalla sua assurda prigione poco tempo prima di essere ucciso.

Moro

Aldo Moro e il coraggio della memoria

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