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Meno di due giorni e una fitta agenda di incontri separano Donald Trump dal suo appuntamento con il Congresso a sezioni unite per l’atteso discorso sullo stato dell’Unione.

Sarà un evento da seguire con attenzione, data la delicatezza del momento attraversato dall’amministrazione, che nell’ultimo mese ha inanellato significative vittorie, pesanti sconfitte e i primi veri compromessi, dolorosi ma al tempo stesso inevitabili.

Il 2018 è iniziato nel migliore dei modi per il presidente degli Stati Uniti. Sulla spinta dell’entusiasmo per l’approvazione della riforma fiscale, la Casa Bianca ha offerto una significativa prova di maturità e una dimostrazione di equilibrio con la maggioranza repubblicana nelle due aule del Congresso. Anche grazie al lavoro egregio di alcuni tra i più stretti collaboratori del presidente, la sua consueta acredine nei confronti dell’establishment di Washington è passata in secondo piano. Sullo sfondo di una costante crescita economica ed occupazionale, la dottrina del Make America Great Again ha toccato uno dei punti più alti di concretizzazione.

L’agenda politica e le complicate dinamiche del confronto tra gli schieramenti al Congresso hanno, però, interrotto troppo presto la luna di miele tra il tycoon di New York e un mondo, quello della politica di professione, con cui proprio non riesce ad avere un rapporto armonioso.

Così alla mezzanotte del giorno più emblematico per la sua presidenza, nell’anniversario dell’ingresso trionfale alla Casa Bianca, Trump ha imparato a proprie spese quanto sordo e cinico possa essere l’agone politico. Lo shutdown è stato un duro ritorno alla realtà, brusco e doloroso. Unico modo per superare l’impasse (sul quale non si escludono mosse false all’interno della sua stessa maggioranza) scendere a patti con i democratici sul terreno che fa più male: l’immigrazione.

Solo grazie al lavoro degli sherpa al Congresso e ai buoni consigli dei più avveduti collaboratori ha preso forma quel compromesso sui Dreamers (e magari tacitamente anche sul muro) che ha consentito di accantonare momentaneamente lo spauracchio del dissesto finanziario per numerosi enti federali.

Il presidente ha fatto buon viso a cattivo gioco e si è dovuto accontentare di un compromesso al ribasso. Nonostante l’aver vestito i panni del leader responsabile, c’è da pensare che il Donald Trump di “you’re fired!” non dimenticherà così facilmente l’incidente di percorso, su cui anche la stampa ha insistito non poco.

Con la stessa frequenza di un pendolo, poche ore sono passate prima di rivedere il Trump dell’America First che inaugura il secondo obiettivo della sua agenda economica per il Paese: un piano di investimenti senza precedenti nel settore delle infrastrutture. Il presidente ha annunciato l’impegno della Casa Bianca proprio mentre si preparava a partire per il World Economic Forum di Davos. Con la sua presenza in uno dei templi del multilateralismo economico, Trump ha voluto lanciare un chiaro segnale di forza ai leader presenti. Ne è una prova il fatto che negli ultimi dieci anni nessuno dei suoi predecessori (ad eccezione di Bill Clinton nel 2000) abbia preso parte ai lavori.

A poche ore dal discorso sullo stato dell’Unione, Trump ha dichiaratamente posto gli interessi degli Stati Uniti davanti a quelli di tutti gli altri Paesi. Nei fatti questa volta, a differenza del passato, America First non ha significato America Alone. Con un piglio decisamente diplomatico, Donald Trump ha recapitato un chiaro messaggio alla comunità internazionale: gli USA si aprono al mondo ma lo fanno riappropriandosi della loro leadership, scegliendo come e quando entrare a patti con gli altri attori internazionali. Ne consegue l’idea un po’ forzata di un multilateralismo che sopravvive pur piegato da un bilateralismo imposto, che solo gli Stati Uniti possono pretendere nei confronti del resto del mondo.

Al netto delle critiche contingenti e degli strascichi polemici con la stampa che inevitabilmente questo presidente si porta dietro, Trump si presenterà al suo discorso sullo stato dell’Unione con alle spalle un anno di maggiore realismo politico e una più accentuata responsabilità di governo. La maturità inevitabilmente acquisita ha contribuito a plasmare in modo più netto la sua visione strategica, che passa anche attraverso la leadership responsabile del Pentagono e una relazione in continuo divenire con il Dipartimento di Stato, dove non si escludono importanti cambiamenti nel brevissimo periodo.

Il presidente Usa alla prova del suo primo State of the Union

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