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Nella prima tappa del suo tour in Medio Oriente, il vice-presidente americano Mike Pence è stato ricevuto al Cairo con tutti gli onori dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. È piena l’intesa tra i due leader su ciò che in questo momento unisce i due paesi: lotta senza quartiere contro il terrorismo jihadista e ricerca di una soluzione al problema palestinese al di là delle incomprensioni generate dall’annuncio con cui Donald Trump il 6 dicembre scorso ha riconosciuto Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.

È la prima volta dal 2009, quando fu il turno di Barack Obama, che un leader americano visita l’Egitto. Allora il predecessore di Trump pronunciò nella capitale egiziana un discorso che fu letto come un mea culpa per gli errori dell’amministrazione di George W. Bush, colpevole di aver infiammato il mondo islamico con le due guerre in Afghanistan ed in Iraq e di aver abbracciato la dottrina dell’esportazione della democrazia, interpretata come un atto di arroganza da parte della superpotenza a stelle e strisce.

Ma Obama è stato anche il presidente che ha deciso di distanziare il suo paese dai travagli del mondo arabo, spostando l’asse della politica americana verso l’Asia con la famosa politica del pivot. Ed è colui che si è intestato la vittoria diplomatica dell’accordo sul nucleare con l’Iran, che molti in questa porzione di mondo hanno interpretato come un atto di appeasement nei confronti di un paese che non nasconde le sue mire espansioniste.

Oggi, con Trump alla Casa Bianca, la situazione è decisamente diversa. Il tycoon ama presentarsi come la nemesi del suo predecessore, di cui ha deciso anzitutto di rottamare la distensione con l’Iran. Mossa che è stata salutata con sollievo nel mondo arabo, che ritrova in Washington il proprio leader di riferimento e un paese su cui fare affidamento nella disfida geopolitica con Teheran.

Insieme ai regnanti dell’Arabia Saudita, al-Sisi è uno degli uomini della regione più vicini al cuore di The Donald, che nella sua visita a marzo alla Casa Bianca lo ha definito un “fantastic guy”. Finiti sono i tempi delle rampogne obamiane sui diritti umani. Trump è un leader che ama gli uomini forti, e al-Sisi ne è il prototipo. L’odierna visita di Pence corona questo riavvicinamento ed equivale anche ad un endorsement verso al-Sisi per le elezioni presidenziali che si terranno a marzo.

Nelle due ore e mezzo di faccia a faccia tra Pence e Sisi, il tema del terrorismo è tornato più volte in primo piano. Il vice-presidente ha ascoltato con attenzione il richiamo del leader egiziano alla necessità di trovare “modi per eliminare questa malattia e questo cancro che ha terrorizzato il mondo intero”. Gli ha risposto dicendogli che gli Stati Uniti stanno “fianco a fianco con voi nella lotta al terrorismo” e che “i nostri cuori si addolorano” per la perdita di vite umane causata dagli attentati che anche recentemente hanno insanguinato il paese dei Faraoni.

Anche quando la discussione ha toccato l’altro tema caldo del momento, la Palestina, la cordialità ha dominato i toni. “Abbiamo ascoltato la voce del presidente al-Sisi”, ha detto Pence ai giornalisti al seguito, sottolineando che quello tra Stati Uniti ed Egitto è “un disaccordo tra amici circa la nostra decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele”. Un disaccordo superficiale che non intacca la sintonia sulla sostanza del problema. Pence ha evidenziato che “siamo assolutamente impegnati nel preservare lo status quo riguardo ai luoghi santi a Gerusalemme e che non siamo giunti ad alcuna risoluzione finale circa i confini o alti temi che dovranno essere negoziati” direttamente dagli israeliani e dai palestinesi. “Ho ricordato al presidente al-Sisi”, ha aggiunto Pence, “che il presidente Trump ha detto che se le parti sono d’accordo, noi appoggiamo una soluzione a due stati. La mia percezione è che sia stato incoraggiato da questo messaggio”.

Le rassicurazioni di Pence hanno ottenuto l’effetto sperato. Nel comunicato rilasciato poco dopo dalla presidenza egiziana, al-Sisi ha notato che solo un negoziato diretto tra israeliani e palestinesi potrà chiudere la controversia, e che “l’Egitto non risparmierà alcuno sforzo”.

Gli Stati Uniti possono dunque fare ancora affidamento sul fondamentale ruolo di mediazione dell’Egitto. Un risultato importante, che servirà a fare pressioni sui palestinesi che, dopo l’annuncio di Trump su Gerusalemme capitale, hanno chiuso tutte le porte, rifiutandosi persino di ricevere Pence quando, nelle prossime ore, raggiungerà la Terra Santa. Oggi intanto il vice-presidente sarà a colloquio con il re di Giordania Abdallah II, altro interlocutore chiave nella questione palestinese e alleato di ferro di Washington, da cui, come l’Egitto, riceve ogni anno sostanziosi aiuti.

Il viaggio di Pence si concluderà quindi con la tappa in Israele. In programma, l’incontro con il primo ministro Benjamin Netanyahu, la visita al muro occidentale e, infine, un discorso alla Knesset, onore che il parlamento israeliano concede raramente ma che non poteva mancare nel caso di un uomo che, insieme al suo capo, ha mostrato con i fatti la solidità dell’amicizia tra Stati Uniti ed Israele.

pence

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