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Francia, Tunisia, Germania, Spagna, alleati Nato e partner dell’Ue. Questo l’elenco, ancora parziale, dei Paesi con cui si è scontrato, più o meno duramente, il nuovo governo giallo-verde. Non male per un esecutivo che si è insediato da neanche due settimane. Che la bussola del governo Conte sarebbe stata la tutela dell’interesse nazionale dell’Italia, da promuovere magari anche imprimendo una parziale nota di discontinuità nella politica estera italiana poteva persino essere prevedibile, ma certo nessuno poteva aspettarsi che dopo 15 giorni Roma si sarebbe trovata più isolata e costretta a dover ricucire con alleati storici e partner affidabili come la Tunisia.

L’ex primo ministro e senatore a vita Mario Monti affida alle colonne di Les Echos un monito, “attenti a giocare col fuoco del nazionalismo”, il rischio è di restare scottati. Rompere i rapporti con Parigi, per quanto infelici siano state le uscite di Macron e dei suoi, potrebbe essere controproducente. Soprattutto all’alba di un Consiglio europeo in cui l’Italia deve trovare sponde per promuovere la sua agenda su temi chiave, come appunto la migrazione. Inoltre, la Francia è, è stato, e sarà un alleato fondamentale per fare squadra contro i falchi tedeschi che si oppongono a qualsiasi riforma dell’eurozona che vada nella direzione della solidarietà e della condivisione dei rischi. Su questi temi, allearsi con Macron è semplicemente l’unica strada possibile per ottenere flessibilità per crescita e investimenti. Come ricorda infatti lo stesso Monti, una piena intesa tra Francia e Italia è stata nel passato fondamentale “per fare pressione pedagogica sulla Germania affinché essa sia più cosciente dell’interesse generale dell’Europa”. Stesso discorso per la questione migranti. Ungheria e Austria, che oggi solidarizzano strumentalmente con il nazionalismo italiano in chiave anti-Bruxelles, difficile diano una mano domani quando si tratterà di accoglierne una quota.

Preoccupazione per la nuova linea sovranista e nazionalista del nuovo governo arriva anche da oltreoceano. A Washington, non inganni l’epiteto un po’ paternalista – è un bravo ragazzo – che Trump ha riservato al neofita Conte, guardano con sospetto e incredulità a un governo che ha più volte minacciato di non tener fede ai suoi obblighi internazionali, specialmente in ambito Nato. L’editorialista Tim Parks, oggi  spiega sul New York Times che dei 26 governi che ha osservato nella sua lunga permanenza in Italia, “alcuni erano più di centrodestra ed altri più di centrosinistra, ma erano tutti essenzialmente moderati, centristi e fieramente europei, in linea con la Nato, l’Unione Europea e la World Bank e, Dio ci benedica, con Zio Sam, su ogni grande tema”. Certo, ammette, delle frizioni ci sono state, “si pensi all’obiezione di Bettino Craxi alle testate nucleari in Sicilia a metà degli anni 80” o alle frequenti violazioni dei regolamenti europei. Tuttavia, mai “un governo aveva dichiarato guerra su una così vasta serie di fronti: le sanzioni contro al Russia, le regole europee su immigrazione e sulle politiche fiscali”.

Parks afferma inoltre che “è difficile non vedere “un’inquietante analogia” tra la mancata qualificazione ai mondiali e l’insediamento di un governo aggressivamente nazionalista. Se il calcio ha sempre offerto “un’occasione rara di libero sfogo dell’identità nazionale”, ecco che con la mancata partecipazione a Russia 2018 l’unico modo che restava a Salvini per proporsi come leader era la sfida all’Europa. Non a caso, nota Parks, “l’Italia non piegherà la testa è un tweet tipico di Salvini ma anche una tipica espressione del gergo calcistico”.

Ecco, per restare nella metafora calcistica, l’opposizione alla Ceta (il trattato di libero scambio col Canada), paventata ieri dal ministro dell’agricoltura Centinaio, sarebbe un clamoroso autogol. Un certo sconcerto lo esprimono sul tema anche i corrispondenti del Financial Times da Roma, Bruxelles e Parigi sul giornale di oggi. “Il commercio, insieme alla politica fiscale, la regolamentazione delle banche e le sanzioni alla Russia – è una delle aree nelle quali il nuovo governo italiano ha promesso di sfidare Bruxelles- scrivono – ma non è chiaro quanto aggressivamente Roma perseguirà una linea intransigente sul commercio, dato che non è stato un grande tema alle elezioni di marzo e che l’Italia è fortemente dipendente dall’Export”. In effetti, dati Sace alla mano, non si capisce cosa abbia da perdere dalla Ceta un Paese che nel periodo 2010-2017 ha ricavato dell’export il 6,7% del suo Pil e può vantare nel 2017 il suo più alto avanzo commerciale della storia, nonché il terzo dell’area Ue. Alle preoccupazioni di Coldiretti, che teme per la protezione geografica del parmigiano, si può controbattere che di tutti gli indicatori geografici europei che trovano protezione nel Ceta, il 28% è italiano, e che il 2017 è stato un anno record per un export agroalimentare italiano che quindi non sembra aver bisogno di protezioni ma casomai di mercati più ampi e più liberalizzati.

Insomma, anche visto dall’estero, l’”Italia first” sembra perlomeno bisognoso di una qualche revisione. Una media potenza come l’Italia ha tutto da perdere dal riemergere di nazionalismi e isolazionismi in un constante precario equilibro, e dovrebbe invece valorizzare e tenere in massima considerazione l’essere parte, di un network multilaterale di alleanze con regole e istituzioni nelle quali far valere i propri interessi e promuovere le proprie, legittime, priorità.

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