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C’è qualcosa di surreale nella polemica innescata da Berlusconi contro Prodi sull’introduzione dell’euro. Una polemica sulla pelle degli italiani; e che sa parecchio di stantio.

Il progetto dell’euro avrebbe dovuto essere accompagnato, è bene ricordarlo, dall’adozione di una carta costituzionale che completasse l’unione economica (oltre a quella monetaria) e rendesse più democratiche le decisioni collettive. Su questo si erano pubblicamente impegnati i principali capi di Stato e di Governo dei paesi europei alla fine degli anni Novanta e nei primi anni 2000, ossia proprio in concomitanza con l’avvio dell’euro. Perché era chiaro a tutti che l’Unione Europea non aveva bisogno solo di una moneta unica. Ma anche di politiche economiche collettive e fra loro coerenti; di maggiore solidarietà; di sistemi decisionali genuinamente democratici, su più livelli, da quello locale a quello sovranazionale. Tutte cose che solo una carta costituzionale, un nuovo patto fondante della convivenza civile in Europa, poteva assicurare.

Che poi l’euro (o meglio la sua governance), privato di una costituzione europea seria (il testo bocciato dai cittadini francesi al referendum del 2005, per quanto un passo avanti rispetto ai Trattati esistenti, era tutt’altro che serio) e soprattutto di una unione economica ed una unione politica, necessarie per dare spazio alla crescita (e non solo ai vincoli) ed alla legittimità democratica diretta dei cittadini (piuttosto che mediata dai governi, che la usano a proprio piacimento e tornaconto) sia diventato un problema è cosa ampiamente nota e credo unanimemente riconosciuta. Con l’arrivo della crisi i nodi sono venuti al pettine, mettendo a nudo tutti i problemi lasciati irrisolti più di dieci anni fa.

Anzi, aggravati dall’esistenza in seno alla UE di una parte di paesi contrari ad ulteriori cessioni di sovranità (il gruppo di Visegrad: Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca… ma anche l’Austria del nuovo governo di destra). Dovremmo concludere che l’allargamento sia stato un fallimento? Che Prodi, all’epoca Presidente della Commissione Europea e principale fautore dell’allargamento, sia il responsabile delle attuali sciagure europee? L’allargamento, così come l’euro, era un passaggio fondamentale per la stabilizzazione delle economie e delle società dell’est. Ma contavano entrambi sul fatto che l’Unione Europea sarebbe stata in grado di darsi un sistema di istituzioni rappresentative della volontà collettiva, sganciata dai ricatti incrociati dei consessi diplomatici tipici dell’Europa di oggi (dove le decisioni sono lasciate alle negoziazioni fra i governi in seno al Consiglio Europeo).

Sull’euro, sbaglia Prodi (quando lo fa) a tentare difese d’ufficio di un sistema di governance dell’economia europea assolutamente e palesemente perverso. Allo stesso tempo, Berlusconi afferma il falso quando dice che l’errore sia stato entrare nell’euro. Il solo fatto di entrare nell’euro ha permesso al governo italiano di risparmiare decine di miliardi per interessi sul debito pubblico (in gran parte gettati al vento per accrescere la spesa corrente piuttosto che per sostenere investimenti di lungo periodo). L’euro ci ha salvato fra il 2001 e il 2008 da uno shock petrolifero che ha portato il prezzo del greggio da 18 a 144 dollari al barile (un aumento doppio rispetto allo shock petrolifero ben più noto degli anni Settanta), ma di cui non abbiamo consapevolezza proprio perché difesi dal tasso di cambio dell’euro. Il dimezzamento del potere d’acquisto degli italiani dopo il 2002 (ma l’euro entra in vigore nel 1999) dipese, su questo ha ragione Prodi, proprio dalla cancellazione degli Osservatori Provinciali previsti per monitorare il cambio a 1936,27 lire contro euro. Una cancellazione di cui è responsabile il Governo Berlusconi insediatosi nel 2001.

È troppo sperare che queste informazioni superficiali cessino di essere messe al centro del dibattito elettorale? E che si parli invece, magari, delle riforme e delle sfide che attendono nei prossimi mesi l’Unione Europea? Riforme che decideranno la qualità del nostro stare in Europa. E sulle quali nessuno osa esprimere nemmeno una vaga opinione. Non un’idea, un contenuto, una strategia. Senza contare che con questa qualità, così stantia, del dibattito politico, c’è il rischio concreto di essere esclusi dai negoziati su quale futuro debba avere il Fiscal Compact, sul completamento dell’Unione bancaria, di quella economica, per decidere come riformare le istituzioni europee. Tutti appuntamenti cruciali, ai quali occorre arrivare con uno spirito costruttivo e combattivo. E soprattutto con le idee chiare e con credibilità, se intendiamo svolgere ancora quel ruolo di mediazione che abbiamo svolto spesso in passato fra le posizioni tedesche e quelle francesi.

Insomma, nel 2018 siamo ancora a guardare indietro, piuttosto che di fronte a noi. E questo la dice lunga sulle prospettive di ripresa culturale, prima ancora che economica, del nostro paese nel quadro europeo.

Sulla pelle degli italiani

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