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Garantire che gli investimenti stranieri nel Vecchio continente non costituiscano una minaccia per infrastrutture critiche, tecnologie chiave o non diano accesso a informazioni sensibili.
Con questi obiettivi, i parlamentari europei hanno recentemente condiviso le basi di un piano per istituire un meccanismo che controlli gli investimenti diretti esteri, soprattutto quelli asiatici, “in modo trasparente, prevedibile e non discriminatorio”.

LA STRATEGIA DELL’UE

Secondo i deputati, è necessario che gli Stati membri dell’Ue e la Commissione siano messi in condizione di determinare in anticipo se un investimento estero possa influire sull’indipendenza dei media o sull’autonomia strategica dell’Ue, se un investitore abbia precedenti di investimenti in progetti che potrebbero minacciare la sicurezza o l’ordine pubblico, o, ancora, se l’investimento possa portare alla creazione di un monopolio.
Per far sì che ciò possa funzionare, si pensa a un meccanismo secondo il quale uno Stato membro che decide di esaminare un investimento diretto estero debbe informare del fatto gli altri Paesi dell’Unione e la Commissione entro cinque giorni lavorativi, ed essere aperto a commenti. Si è proposto, inoltre, che se un terzo degli stati membri considera un investimento preoccupante, il Paese ‘target’ dovrebbe impegnarsi in un dialogo per risolvere le questioni aperte.
Per favorire la cooperazione degli Stati membri in questa materia, condividere le migliori pratiche e affrontare possibili preoccupazioni, i deputati hanno anche immaginato l’istituzione di un gruppo di coordinamento degli screening degli investimenti, presieduto dalla Commissione e composto da Stati membri, con il Parlamento europeo in qualità di osservatore (l’assemblea potrebbe, ad esempio, chiedere a Berlaymont di emettere un parere su un investimento diretto estero pianificato o completato in uno Stato membro).
I deputati inizieranno i colloqui con i ministri una volta che il progetto di regolamento sarà stato approvato dal Parlamento nel suo insieme nella sessione plenaria dell’11-14 giugno a Strasburgo e che il Consiglio dei ministri avrà espresso la propria posizione.

LO STATO ATTUALE

Attualmente, solo 12 dei 28 Stati membri hanno un meccanismo di screening che esamina gli investimenti diretti esteri dal punto di vista della sicurezza o dell’ordine pubblico. I sistemi variano ampiamente e i Paesi non coordinano i loro approcci anche laddove gli investimenti potrebbero avere un effetto in più Stati. Per questo, evidenziano gli europarlamentari, “la proposta non cerca di armonizzare i meccanismi di screening nazionali, ma di migliorare la cooperazione tra gli Stati membri e la Commissione”.

IL MODELLO STATUNITENSE

Con questa mossa, seppur con le dovute differenze, il Vecchio continente si avvicina però al benchmark americano. Il punto di riferimento in questo campo è infatti il Cfius – dall’inglese Committee on Foreign Investment in the United States -, ovvero il comitato inter-agenzia del governo federale che si occupa di analizzare le implicazioni per la sicurezza nazionale degli investimenti stranieri negli Usa. Nato negli anni Settanta, il Comitato per gli Investimenti Esteri fa capo al Dipartimento del Tesoro e riunisce i rappresentanti di tutte le principali agenzie di governo. Dopo l’11 settembre​,​ il comitato ha assunto sempre maggiore importanza e, in quest’ottica, il Congresso ha approva​to una legge che consentisse allo stesso di valutare gli effetti di accordi commerciali e investimenti sulla sicurezza nazionale. Negli ultimi dieci anni l’attenzione del Comitato si è ​molto ​concentrata sulla Cina, in particolare a causa dell’intensificarsi delle​ più volte denunciate​ attività di spionaggio industriale di Pechino contro le aziende americane. Più di recente, una proposta bipartisan sta richiedendo di aumentare i poteri del Comitato permettendogli di valutare autonomamente (ovvero senza una richiesta specifica) il livello di erosione del vantaggio tecnologico americano a seguito di ogni investimento estero. L’amministrazione Trump ha approvato il disegno di legge a gennaio, ma le opinioni in merito sembrano ancora essere divise tra chi approva tale rafforzamento nella capacità di proteggere gli interessi nazionali e coloro che, invece, temono che tale cambiamento possa influenzare negativamente l’economia del ​P​aese diminuendo gli investimenti.

LA NECESSITÀ EUROPEA

“Il governo cinese, tramite le aziende statali che controlla”, spiega in un post l’eurodeputata dem Alessia Mosca – che al tema ha dedicato una scheda di approfondimento -, “sta acquisendo importanti asset europei: dal Porto del Pireo in Grecia, alle centrali nucleari nel Regno Unito, fino a quelle di aziende tecnologiche in Germania e Italia. Queste acquisizioni, potrebbero arrivare a minare i nostri interessi strategici e geopolitici, nonché minacciare i livelli occupazionali. Il volume degli investimenti è uno degli indicatori dello stato di salute di un’economia”. Si tratta, prosegue l’europarlamentare, “di una questione importante e con un forte impatto sull’economia europea”. Gli investimenti, aggiunge, “non possono essere fini a se stessi: oggi siamo un passo più vicini a una politica economica in linea con i valori europei. Ancora una volta, l’Unione si trova a difendere la propria unità di fronte a intrusioni estere”.

GLI INVESTIMENTI ESTERI DI PECHINO

Nel 2016, infatti, si pone in evidenza nella scheda, “gli investimenti cinesi in Europa hanno raggiunto un nuovo record, in netto contrasto con gli investimenti europei in Cina che registrano, da diversi anni, un calo continuo. L’anno scorso, registrando un aumento del 77% rispetto al 2015, gli investitori cinesi hanno fatto confluire sulle piazze europee ben 35 miliardi di euro. Nello stesso anno i flussi provenienti dall’Ue si sono attestati a 8 miliardi di euro (a fronte dei 9,1 del 2015 e gli 11,8 del 2014)”.
Il calo degli investimenti europei, sottolinea l’analisi, “va imputato ai crescenti ostacoli normativi posti dalla Repubblica Popolare, al tredicesimo piano economico quinquennale, e alla strategia Made in China 2025. Quest’ultima mira alla drastica diminuzione delle componenti straniere utilizzate durante i processi produttivi cinesi”.
Mentre “dal 2008, gli investitori cinesi hanno approfittato della crisi finanziaria globale e del crollo dei prezzi in Europa per accaparrarsi asset strategici in molti Stati membri”. Tuttavia, ricostruisce l’approfondimento, “è solo nel 2013, con l’insediamento del Presidente Xi, che gli investimenti cinesi conoscono un’impennata. Il fenomeno, innescato dalla crisi del debito pubblico e coadiuvato dagli obiettivi strategici e geopolitici del nuovo Presidente cinese, ha innescato una competizione interna fra gli Stati membri più esposti alla speculazione sul debito pubblico. La diplomazia economica cinese, privilegiando un approccio bilaterale, ha bypassato le istituzioni comunitarie e, garantendo liquidità a governi con l’acqua alla gola, ha innescato una guerra fra poveri. Nel 2015, l’ammontare degli investimenti in Europa meridionale ha raggiunto, per la prima volta, il 50% del totale delle operazioni cinesi nel Vecchio Continente. Una serie di operazioni di alto profilo, come gli investimenti nel porto del Pireo, hanno, infine, determinato una crescente influenza di Pechino nelle scelte degli Stati membri interessati”. Da qui la necessità di agire.

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