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Il discorso di Donald Trump a Davos è stato, per molti aspetti, rassicurante. È stato pronunciato in modo distaccato, con passione misurata e senza scoppi di emotività. Il presidente si è attenuto allo script, che ha recitato con efficacia e con gesti appropriati, da consumato performer multimediale. Il contenuto non è stato dirompente. Nel breve tempo a disposizione – i quindici minuti sono stati rispettati fedelmente – Trump si è soprattutto preoccupato di elaborare la narrativa che gli ha consentito la vittoria elettorale. Questa narrativa ruota intorno a due parole d’ordine: “America great again” e “America First” e,  sia nel discorso di Davos , sia, possiamo prevedere, nel discorso “State of the Union”, che Trump pronuncerà prossimamente di fronte al Congresso americano, è una narrativa che si propone , prima ancora di aver subìto il test della realtà, come una storia di successo.

Trump quindi si prende immediatamente tutto il merito della crescita americana, e anche quello, più rischioso, dell’ascesa dello stock market, ne esagera un po’ le dimensioni e non riconosce alcun merito all’amministrazione precedente, sotto cui la crescita era pur cominciata e sostenuta da politiche economiche del tutto diverse da quelle che la nuova amministrazione si appresta a fare.

Sul commercio internazionale, altro punto di forza della narrativa, Trump non calca la mano, forse intimorito da una audience così largamente schierata per la libertà degli scambi. Invoca invece dei principi condivisi di “fairness” nella competizione tra Paesi, ma minaccia politiche proattive, anche tariffarie, nella difesa congiunta di questi principi e degli interessi americani. Sulle tasse, d’altra parte, egli già propone una serie di azioni per recuperare competitività, richiamando in America le multinazionali e sollecitando gli investimenti dal resto del mondo, in un esperimento di detassazione delle imprese indubbiamente avventuroso, e che però preoccupa soprattutto i cittadini americani.

La parte più inquietante del messaggio di Trump non è tuttavia la parte esplicita, ma quella non detta, che si può ricavare direttamente dall’assenza di attenzione ai problemi globali e dalle stesse caratteristiche strutturali, per così dire, della narrativa che ruota intorno all’idea di “America first”.  Lo sconcerto che segue ai discorsi di Trump, e per quanto egli o i suoi collaboratori abbiano tentato di attenuarlo in questa versione moderata, anche al discorso di Davos, dipende a mio avviso dal fatto che la narrativa Trumpiana suscita una forma di dissonanza cognitiva globale.

COGNIZIONE, SCONTENTO E ANOMIA

In un esperimento di psicologia cognitiva diventato famoso, Kuhn (1970), studioso della storia del progresso scientifico e dei suoi condizionamenti sociali, colloca un gruppo di studenti universitari in una stanza buia con uno schermo cinematografico e comunica loro che dovranno riconoscere delle carte da gioco dalla loro immagine proiettata sullo schermo. Le immagini proiettate sono dapprima tratte da un mazzo di carte standard e vengono riconosciute senza difficoltà. Gli studenti, cui si chiede di intervenire uno alla volta solo premendo un pulsante, sono sempre in grado di riconoscere la carta: l’esperimento sembra qualcosa tra un gioco e un tentativo di misurare la prontezza dei riflessi.

In un secondo momento, tuttavia, comincia l’esperimento vero e proprio e, oltre alle carte regolari, compaiono sullo schermo delle carte strane: per esempio, una regina di cuori nera, un asso di picche rosso e così via. Gli studenti reagiscono con crescente disorientamento, prima tentando di interpretare le nuove carte come vecchie carte travestite – la regina di cuori viene riconosciuta come una regina rossa, l’asso di picche come un asso di picche nero – e poi con inquietudine e sconcerto, finché, all’intensificarsi dell’apparire delle nuove carte, manifestano l’intenzione di lasciare la sala.

Questo esperimento, che illustra la tesi centrale di Kuhn sull’importanza del sistema di riferimento comune (il “mazzo di carte”) nell’interpretazione della realtà, suona in modo familiare e quasi sinistro nell’Europa e in molte aree del mondo di oggi. In questo senso, Trump sembra parte di un generale problema di disorientamento collettivo che attraversa le istituzioni nazionali. Quando guardiamo a molti nuovi movimenti politici e nuovi leader, non ci sembra, infatti, di essere in una stanza oscura con strane, irriconoscibili carte che si proiettano sullo schermo? Questi sono, in parte, scomparsi e, in parte, ancora sullo schermo, ma quello che si è dissolto e ci rende irrequieti e vogliosi di uscire dalla stanza dell’esperimento è il crollo del sistema cognitivo comune, il “mazzo di carte”, che conoscevamo a memoria.

I sociologi hanno un nome per la situazione che si determina quando siamo di fronte a un’esperienza che non è coerente con la nostra struttura cognitiva, cioè con il sistema di conoscenze e di credenze che ci permette di dare senso alla realtà. Questo nome è “anomia”. Il termine indica una sensazione di fondamentale incoerenza tra esperienza e comprensione della realtà, al punto da mettere in discussione i principi di base di quest’ultima. Nei soggetti in cui ciò avviene, si genera un senso di smarrimento e di caos impellente che spinge alla fuga.

La figura di Trump richiama però l’esperimento creatore di anomia, come una delle carte più inquietanti. Questo non tanto perché egli dica delle novità, poiché molte delle sue tesi sono di fatto rielaborazioni di argomenti politici di vecchia data, quanto piuttosto per il fatto che esse sembrano integrate in un contesto, quello della Presidenza degli Stati Uniti, che nell’immaginario collettivo corrisponde ad aspettative radicalmente diverse di contenuto, di rappresentazione e di stile.

Anche nel discorso di Davos, certamente moderato e privo di esplicita conflittualità rispetto alle passate esternazioni del presidente americano, lo sconcerto degli osservatori sembra giustificato più da una forma di fondamentale incoerenza con quello che ci si aspetta dal leader di una grande potenza, che da espressioni rivoluzionarie che sfidano il consenso comune.

CAPITALE SOCIALE E “SOVRANISMO AMORALE”

Al di là delle situazioni di crisi, l’anomia è un fenomeno pervasivo nella società moderna. Essa risulta a dalla mancanza di capitale sociale, ossia dell’insieme di relazioni che permettono di costruire un sistema cognitivo efficiente per comprendere la realtà sociale e comportarsi in modo coerente rispetto ad essa. Riferendoci ancora all’esperimento di Kuhn, l’anomia può sorgere non solo dal disorientamento creato dalla sostituzione delle carte, ma anche, e in modo più pregnante, dal non avere un mazzo di carte a cui riferirsi.

Poiché il capitale sociale dipende dai legami tra le persone, piuttosto che dalle persone stesse, esso possiede alcune peculiarità rispetto alle altre forme di capitale, quello fisico e quello umano, che siamo abituati a riconoscere. Anzitutto, la sua intangibilità è estrema. Mentre il capitale fisico si può misurare direttamente e quello umano indirettamente attraverso la spesa in istruzione o ricerca e sviluppo, il capitale sociale può soltanto essere descritto. Se viene misurato, le misure si basano su indicatori vaghi e su unità arbitrarie.

In secondo luogo, il capitale sociale ha le proprietà di un reticolo di legami. La sua diffusione e il suo potere, pur non risiedendo nelle persone, dipendono dal numero di persone che nel reticolo sono allacciate l’una all’altra. Come una rete telefonica o un sistema di trasporti, il beneficio che ciascun membro del gruppo ricava dal capitale sociale del gruppo stesso dipende dal numero di unità che ne condividono l’uso. Le norme di comportamento, la fiducia reciproca, le procedure di coordinamento e cooperazione sono gli esempi principali delle reti relazionali corrispondenti ad una dotazione più o meno generosa di capitale sociale. Nel caso dei rapporti internazionali, la globalizzazione dell’economia ha creato interdipendenze economiche, tecnologiche e culturali, sempre più estese e complesse. Dalla fine della seconda guerra mondiale, la comunità internazionale, con l’apporto fondamentale degli Stati Uniti, si sta misurando con la sfida di creare attraverso una rete di istituzioni multilaterali e un insieme condiviso di regole e di principi di collaborazione, la base di un capitale sociale globale.

Il discorso “morale” di Trump agli altri capi di governo non è quindi edificante e fa retrocedere l’America alle sue posizioni semi-isolazioniste di un passato più o meno remoto. Tuttavia, la parte più preoccupante, dalla asserzione dell’”America First” ai propositi battaglieri sul commercio internazionale è che l’attitudine del presidente espone una carenza cognitiva fondamentale sulla nozione stessa di capitale sociale e di relazioni internazionali.

Da una parte, ci si può forse sentire rassicurati dall’ipotesi che “America First” possa essere solo un elemento vistoso di una narrativa di successo che si è consolidata durante la campagna elettorale e che pone oggi il problema della sua realizzazione in concreti gesti politici. Dall’altra parte, non si può non essere preoccupati del fatto che la narrativa attuale, elaborata da presidente e non più da candidato di parte, mostri di non apprezzare i benefici del multilateralismo e i successi della sua costruzione faticosa a fondamento delle relazioni internazionali.

L’ipotesi di “America first but not alone” ha in realtà un parallelo sociologico molto eloquente in una analisi compiuta negli anni ’70 da un sociologo americano, Banfield. Questi, studiando un paesino dell’Italia del sud, formulò l’ipotesi che l’ethos dei suoi abitanti fosse riassumibile nel cosiddetto “familismo amorale”, ossia nella regola “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare e supporre che tutti gli altri si comportino nello stesso modo”.

Nonostante la provata associazione del “familismo amorale” con le comunità meno sviluppate, il discorso di Trump paradossalmente si pone come un invito alla comunità internazionale ad adottare una simile strategia regressiva di “sovranismo amorale”, riassumibile nella regola “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della nazione-stato e supporre che tutti gli altri si comportino nello stesso modo”. Rispetto al familismo, questa regola avrebbe il vantaggio che l’America non pretenderebbe di praticarlo da sola (“America first, but not America alone”), ma insieme alle altre nazioni, secondo geometrie variabili di priorità e alleanze bilaterali. La conseguenza non potrebbe che essere una rete di relazioni sociali molto povera, basata su rapporti bilaterali opportunistici ed instabili e un minimo di rapporti multilaterali: ossia un capitale sociale internazionale drammaticamente ridotto all’osso e forse anche più povero di quello prevalente del mondo dell’inizio del secolo scorso.

 

 

Vi spiego lo sconcertante intervento di Trump a Davos

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