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Domenica Saad Hariri, il primo ministro libanese che sabato 4 novembre ha annunciato le sue dimissioni, è andato in onda in diretta sull’emittente video del suo partito (il movimento politico riferimento dei sunniti in Libano, che si chiama Il Futuro). Come in occasione della dichiarazione sulle dimissioni, Hariri ha parlato da Riad, dove si trova in condizioni ancora non del tutto chiare: dal Libano, sia i colleghi di partito, sia i gruppi che compongono il pragmatico governo di coalizione, come Hezbollah, dichiarano che è tenuto in ostaggio. I sauditi negano: su di loro l’accusa di averlo rapito per costringerlo all’annuncio dimissionario. Obiettivo: calcare la linea anti-iraniana che Riyad, tramite il futuro erede al trono Mohammed bin Salman, sta sostenendo sempre più aggressivamente.

RIYAD E HARIRI

L’Arabia Saudita è uno sponsor esterno di Hariri, su cui allunga l’ala protettrice sunnita, ma soprattutto interessi politici tenuti insieme da investimenti economici che il Regno gioca nel Paese dei cedri. Quando il premier ha annunciato, giovedì 2 novembre, che il giorno dopo sarebbe partito per la capitale saudita, il viaggio sembrava uno dei tipici richiami con cui Hariri veniva convocato in Arabia Saudita per fare il punto della situazione nel suo Paese (per questo nessuno si aspettava quello che sarebbe successo); Hariri aveva dato appuntamento ad alcuni collaboratori a Sharm el Sheikh, in Egitto, dove avrebbe dovuto vedersi col presidente Sisi. Poi, dopo un incontro con bin Salman, l’annuncio delle dimissioni. Nel suo discorso il premier ha fatto chiaramente riferimento alle intromissioni iraniane nella vita socio-politica libanese: Riyad ha alzato il suo contrasto all’Iran proprio denunciando questa longa manus di Teheran nel Golfo (nota: la denuncia è in concorrenza, perché entrambe sono realtà che vorrebbero l’esclusività dell’influenza sulla regione).

CHE FINE HA FATTO HARIRI?

Fino a domenica, le migliori informazioni sulla situazione del premier le aveva la Reuters: membri della sua famiglia e collaboratori hanno detto all’agenzia britannica che le sue parole non andavano troppo oltre a uno “Sto bene” e alla domanda “Tornerai?” lui aveva risposta soltanto “Inshallah“, se Dio vuole. Altre informazioni: appena atterrato lo hanno bloccato, gli hanno tolto tutti i device con cui poteva collegarsi a internet (e pure il telefono), lo hanno condotto in un’abitazione di sua proprietà a Riyad e messo in una specie di arresti domiciliari. Durante l’intervista di domenica, Hariri ha però detto che potrebbe anche rivedere la sua scelta, perché le dimissioni non sono definitive, ma erano soltanto una leva per scatenare una reazione.

UNA STRANA INTERVISTA

Se l’obiettivo di mandare Hariri davanti alle telecamere era quello di rassicurare sull’intera situazione, allora è fallito. Il primo ministro è apparso spaventato e a tratti assente, ha spesso guardato in una direzione (in alto a destra, rispetto all’intervistatrice che era seduta davanti a lui, e proprio lì a un tratto è apparso un uomo con un pezzo di carta arrotolato in mano, come qualcosa da cui il premier avesse dovuto leggere). A un certo punto ha chiesto di interrompere le domande, incalzanti, visto che il suo partito (che paga lo stipendio della giornalista) è una delle varie voci che dal Libano parla di rapimento: ha detto di essere “spossato” dall’intervista. Il punto nevralgico: ha detto di essere disposto a continuare nel suo incarico – sottinteso: continuare la collaborazione con Hezbollah – se solo il partito/milizia filo-iraniano avesse deciso di deporre le armi (con allargamento all’impegno in Siria e in Yemen).

CHE SI DICE IN LIBANO

Da Beirut, il capo politico-spirituale del gruppo paramilitare Hezbollah, uno stato-nello-stato che controlla tutte le statehood libanesi e lo fa in simbiosi con l’Iran, aveva fatto sapere che al suo ritorno, il primo ministro sarebbe stato accolto come se nulla fosse successo. Dietro a questa posizione, condivisa anche dal presidente libanese Michel Aoun (il principale degli alleati cristiani di Hezbollah), c’è anche spin politico: la volontà è di sottolineare come la mossa di Hariri sia stata manovrata da Riyad nel tentativo di creare squilibri regionali contro-l’Iran. Lettura simile, lato opposto: se è vero che i sauditi volevano indebolire l’Iran e Hezbollah con la forzatura delle dimissioni, magari pensando a un sostituto che fosse stato più falco nei confronti di Teheran e dei suoi proxy libanesi, con cui Hariri è stato spesso morbido (c’è anche un nome: Bahaa Hariri, fratello maggiore di Saad, molto più duro sull’Iran), e dato che questo non è successo, allora la retromarcia del primo ministro potrebbe essere altrettanto strategica. Gli osservatori concordano su un fatto: le dimissioni di Hariri e le ricostruzioni da film del retroscena, sono state uno dei rari episodi che hanno consolidato tutti i libanesi – divisi da anni di settarismo – su un punto, la colpa è di Riyad.

(Foto: Youtube)

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