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La primavera araba più dirompente, che promette di modificare profondamente gli equilibri interni all’intero mondo islamico, è quella che sta avendo luogo in questi mesi nel Paese più conservatore della Mezzaluna: l’Arabia Saudita. A differenza di quelle che presero l’abbrivio nel 2011 con le proteste di piazza in Tunisia ed Egitto e innescarono cambiamenti epocali, ma non sempre positivi e duraturi, quella saudita è una rivoluzione “top-down”, amministrata cioè scientificamente dalla dirigenza del regno, in nome di un calcolo cinico ma inesorabile: o si fa così, o crolla tutto il castello e si aprono le porte dell’inferno islamista, i cui effetti nell’ex califfato nero hanno offerto a tutti un indimenticabile ammaestramento.

È perciò che, questo fine settimana, due stadi dell’Arabia Saudita – lo stadio internazionale di re Fahd a Riad e quello di re Abdullah a Gedda – hanno aperto le porte ai tifosi di sesso femminile. La novità era stata annunciata il 29 ottobre dall’Autorità generale dello sport del regno, che introdusse un apposito regolamento: istituzione di “sezioni per famiglie”, predisposizione di bagni e sale di preghiera per sole donne. Venerdì, a Gedda, è arrivato il giorno tanto atteso: dei 62mila biglietti disponibili per il derby tra le squadre dell’Al-Alhi e di Al-Batin, 10 mila erano riservati al pubblico femminile. Che si è incolonnato nell’ingresso speciale presidiato da addette di sesso femminile cortesi e accoglienti. Sopra il tradizionale abaya nero, molte tifose indossavano sciarpe con i colori della squadra del cuore, altre avevano pitturato il volto. Identiche scene si sono ripetute ieri nella capitale Riad. Un terzo stadio, quello di Dammam, celebrerà la novità nel corso della settimana.

A salutare la svolta su Twitter ci ha pensato uno dei volti femminili del nuovo corso saudita, la portavoce dell’ambasciata di Washington Fatimah Baheshen: “Mentre parlo, tifose saudite stanno entrando in uno stadio di calcio! Questo è più che un diritto delle donne: l’incontro di oggi tra la squadra dell’Al-Alhi e quella di Al-Batin, e quelli che seguiranno, sono l’opportunità per le famiglie di stare insieme e di godersi lo sport nazionale del regno dell’Arabia Saudita: il calcio! Io tifo per le donne – enjoy!”. Quello di Baheshen è uno dei cinquantamila tweet che hanno inondato il social dei 280 caratteri per celebrare l’avvenimento.

Operazione riuscita, dunque, per il regista della primavera araba saudita. Che è, come tutti sanno, l’erede al trono Mohammad bin Salman, meglio noto con l’acronimo MBS. L’ambizioso e intraprendente figlio dell’ottuagenario re Salman gestisce di fatto tutti gli affari del regno, e lo fa con stile decisionista e con pugno duro. Lo sanno bene i suoi consanguinei e i miliardari che, il 4 novembre scorso, sono finiti in una retata voluta dal rampollo per lanciare un messaggio urbi et orbi: è finita l’era della corruzione e del patronage rampante. Le riforme economiche sono uno dei marchi di fabbrica del nuovo corso saudita. L’anno scorso MBS ha illustrato Vision 2030, il suo piano di ammodernamento della struttura economica del Regno finalizzato ad emanciparlo dalla cronica dipendenza dal petrolio, ad attrarre investimenti stranieri e a mettere in circolazione le energie del Paese finora anchilosate in un sistema che consentiva alla gran parte degli uomini (e a tutte le donne) di astenersi dal lavoro, delegandolo a milioni di immigrati privati di ogni diritto. Nel pacchetto di Vision 2030 c’è anche l’affare del secolo: la privatizzazione del 5% delle quote di Saudi Aramco, la compagnia petrolifera statale.

MBS ambisce a rifare l’Arabia Saudita a immagine e somiglianza della sua giovane età. È una scelta obbligata, considerata la struttura demografica del Regno, con la maggior parte della popolazione che ha meno di 25 anni. Di fronte a questo vincolo, MBS ha deciso di giocare una partita sicura ma difficile, mettendo in discussione il patto tra la casa reale e l’establishment religioso wahhabita che regge le sorti del Paese sin dalla sua fondazione nel XVIII secolo. L’intesa tra i regnanti e il clero aveva dato vita ad un sistema peculiare in cui uno stuolo di principi amministrava gli affari pubblici come se si trattasse di una proprietà privata, lasciando alla casta religiosa l’ultima parola in materia di costume e morale. Ne è scaturito un sistema oscurantista fondato sulla rigida osservanza dei precetti coranici e sulla segregazione femminile, sullo sfondo paradossale delle colossali ricchezze garantite dai petrodollari.

Questo sistema si è irrigidito ulteriormente nel 1979, l’anno in cui l’autorità morale dell’Arabia Saudita – custode dei due luoghi santi dell’Islam, Mecca e Medina – fu sfidata mortalmente dalla rivoluzione khomeinista, prodotto d’esportazione che minacciava i fondamenti del potere wahhabita. La controffensiva saudita fu imponente: miliardi di dollari furono pompati nelle casse di istituzioni religiose sparse per il mondo per re-islamizzare le masse secondo i dettami del credo wahhabita. Fu l’inizio della stagione fondamentalista che tanti libri e articoli di giornali ha fatto scrivere in Occidente. Ma fu anche, secondo il sospetto di più di qualche osservatore, il principio di un’alleanza tattica tra il clero wahhabita e seguaci ben più radicali che, come accadde con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e di lì in poi in tutti i teatri di guerra civile, portarono l’ortodossia islamista sul terreno scivoloso del jihad.

L’ultima incarnazione di questo pericoloso connubio, lo Stato islamico, ha reso evidente però come il genio fosse ormai sfuggito dalla bottiglia. Il califfo Abu Bakr al-Baghdadi coltivava il sogno di espandere il suo califfato inglobando il territorio su cui regnano gli “empi” Saud. Era la stessa ambizione, d’altro canto, del precedente eroe (e oggi martire) della causa jihadista, Osama bin Laden, cittadino saudita con più di un addentellato nella famiglia reale. Per MBS, la lezione è sufficiente.

In questa sua personalissima rivoluzione, MBS può contare sul pieno sostegno dei fratelli arabi, con cui le relazioni sono più che fluide. E su un potente alleato, la Casa Bianca. Con Donald Trump, i rapporti sono eccellenti. Il consigliere e genero del presidente Jared Kushner è andato più volte a Riad a confabulare con MBS. Tra i risultati di questo idillio c’è il cosiddetto “accordo definitivo” sulla Palestina, che gli Stati Uniti renderanno noto a breve.

Se dalla primavera araba di Riad scaturirà la nascita di un nuovo Stato arabo nella martoriata Terra Santa è da vedersi. Certo, la causa palestinese non scalda più i cuori delle piazze arabe come ai tempi di Nasser. Oggi, cittadini e sudditi dei Paesi arabi sono più interessati a questioni materiali e alla sfera dei diritti, tradizionalmente conculcati da governi autoritari e senza scrupoli. MBS lo sa, per questo da marzo riapriranno i cinema, e a giugno le donne avranno il permesso di guidare. Se una delle ossessioni di MBS è quella, per dirla con il lessico occidentale, dell’egemonia regionale e di tenere testa alla potenza rivale sciita, sfidarla in riformismo può essere una strada per ottenere il primato. Sono i segni di una storia che si è rimessa in movimento, insieme alle sabbie arabe.

senato bin Salman arabia saudita

Se MBS sceglie la via delle riforme per affermare il primato dell'Arabia Saudita

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