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Sono un tifoso laziale, e i lettori potranno quindi immaginare la mia frustrazione di queste ore. So che, al pari di quella degli imbecilli, la mamma dei razzisti è sempre incinta (in realtà è la stessa). Ma l’oltraggio alla memoria di Anna Frank di cui si è macchiato un manipolo di ultras decerebrati non deve essere sottovalutato. L’episodio conferma che in Italia l’antisemitismo gode di buona salute. Tuttavia, dopo lo sdegno, non bisogna perdere di vista l’obiettivo coltivato da tutti i gruppi, più o meno politicizzati, che si richiamano al negazionismo: mettere in discussione il diritto a esistere dello Stato d’Israele.

La tesi di questi grassatori della verità storica è che le “false vittime” di un “genocidio inesistente” di ieri sono i veri persecutori di oggi. La nascita dello Stato d’Israele, dunque, si avvale di un’indebita patente di legittimità morale. È cioè soltanto il frutto della cattiva coscienza dell’Occidente. Il  sionismo diventa così nuovamente l’avatar del complotto giudaico. Lo Stato degli ebrei è insomma un’impostura, l’abusivo destinatario di una solidarietà deviata. Il rapporto che viene stabilito tra il mito dell’Olocausto e l’azione contro i palestinesi dei governi di Tel Aviv diventa così l’impasto politico-ideologico che permette di riabilitare sotto mentite spoglie un antigiudaismo che affonda le sue radici in una millenaria tradizione.

Chiedo allora alla ministra Valeria Fedeli: cosa ha fatto, cosa sta facendo e cosa ha intenzione di fare la scuola italiana per arginare questo delirio della ragione? Avendo partecipato in passato a cerimonie commemorative della Shoah in alcuni licei, mi è parso che gli studenti (e anche qualche professore) il più delle volte ignorassero perfino il motivo della convocazione nell’aula magna del loro istituto. Inoltre, perché non viene letto e illustrato ai nostri giovani un testo che dovrebbe essere imparato a memoria?

Mi riferisco al verbale, scoperto nel 1992, della Conferenza di Wannsee, organizzata il 20 gennaio 1942 a Berlino dal capo della Direzione generale per la sicurezza del Reich, Reinhard Heydrich. Con il verbale (redatto da Adolf Eichmann) e con il testo dell’autorizzazione per preparare una “soluzione globale della questione ebraica” (siglata il 31 luglio 1941 da Hermann Göring e indirizzata allo stesso Heydrich), sono state acquisite le prove definitive del genocidio progettato dai nazisti. Questi documenti attestano i tre obiettivi politici definiti dalla Direzione generale per la sicurezza: riservare esclusivamente a se stessa il compito di liquidare gli ebrei tedeschi e dell’Europa occupata; coordinare tutte le istituzioni del Reich coinvolte nella “soluzione globale”; pianificare l’eliminazione degli undici milioni di ebrei europei compresi tra il Portogallo e l’Unione Sovietica (Kurt Pätzold e Erika Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei, Bollati Boringhieri, 2000).

È perciò necessario spiegare correttamente le origini, le ragioni e le finalità dello sterminio nazista. Esso conquistò la scena giudiziaria e storica non a Norimberga, ma soltanto nel 1961 a Gerusalemme, quando salì sul banco degli imputati Adolf Eichmann. Da quel processo nacque una nuova cognizione della portata della catastrofe, segnando in maniera indelebile la cultura del secondo Novecento. Il merito fu anche del saggio di Hannah Arendt, pubblicato nel 1963, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.

Un fulmine a ciel sereno, che scatenò accese polemiche e si attirò le feroci accuse delle autorità israeliane del tempo per l’acquiescenza o la complicità con i nazisti, denunciate dall’autrice, di alcuni dirigenti dei Consigli ebraici (“Judenräte”) nelle zone occupate dell’Est europeo. Ma la chiave della “banalità” dell’ex tenente colonnello delle SS non era affatto un’invenzione della studiosa tedesca. Come hanno dimostrato le ricerche successive (fra tutte, quella monumentale di Raul Hilberg), Eichmann non era stato altro che un amministratore della burocrazia dello sterminio, un semplice pezzo di quell’ingranaggio governato da norme e pratiche nelle quali era incorporata la disumanità del progetto hitleriano.

Riferendosi allo scandalo dell’apparente “gratuità” della persecuzione antisemita, Primo Levi ha scritto provocatoriamente che “non si può comprendere e non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare” (Se questo è un uomo). Al contrario, in questi anni i negazionisti di ogni risma hanno rialzato la testa. In fondo, lo aveva preconizzato Theodor W. Adorno già all’indomani della sconfitta di Hitler: “Nello scambio e nella confusione di verità e menzogna, che ormai quasi esclude che si possa mantenere e preservare la loro differenza, e che fa diventare un lavoro di Sisifo anche lo sforzo di tener ferma la conoscenza più elementare, si afferma […] la vittoria del principio che è stato disfatto sul piano strategico e militare. Le bugie hanno le gambe lunghe: si può dire che precorrano i tempi” (Minima moralia, aforisma 71).

Infine, mi permetto di segnalare alla ministra Fedeli che tre anni fa è stato pubblicato un libro di Bernard Wasserstein che meriterebbe di essere tradotto in Italia: On The Eve: The Jews of Europe before the Second World War (“Alla vigilia: gli ebrei d’Europa prima della Seconda guerra mondiale”). Non è vero – spiega l’eminente studioso inglese – che gli ebrei del Vecchio continente aspettavano passivamente lo scatenarsi della Shoah. Al contrario, cercavano di affrontare la minaccia in tutti i modi possibili: alcuni con l’assimilazione, altri con l’emigrazione, altri ancora con la conversione; alcuni si chiusero in un ghetto culturale, altri divennero comunisti, socialisti, liberali e perfino fascisti. Tutti cercavano di essere protagonisti della propria storia, senza però essere mai abbastanza forti per diventare padroni del proprio destino. Lo sono diventati con la creazione dello Stato di Israele. Mi sembra quindi stravagante chiedere a un popolo di rinunciarvi (foss’anche parzialmente), come fanno tanti intellettuali europei engagés, in nome di una coesistenza pacifica da un altro popolo negata in via di principio.

Recensendo il volume di Wasserstein, Donald Sassoon ha riproposto una domanda antica: cosa vuol dire essere ebreo? È una questione di religione, di etnia, di lingua? “Non conosco l’ebraico, non sono credente, non sono sionista, quindi – si interrogava Sigmund Freud – cosa mi rimane di ebreo?” “Moltissimo… probabilmente – replicava – l’essenza stessa dell’essere ebreo”. Anche se poi ammetteva di non riuscire ad esprimere chiaramente a parole questa misteriosa essenza. Dal canto suo, quando Franz Kafka si chiedeva cosa avesse in comune con gli altri ebrei, rispondeva identificandosi con gli ebrei perseguitati, con la lotta contro ogni forma di antisemitismo. Io, che (purtroppo) non sono Kafka e non sono nemmeno ebreo, oggi direi la stessa cosa.

 

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