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Nella mattinata di venerdì c’è stata una strage terroristica nel villaggio di Rodah, vicino ad al Arish, città costiera e capologuo del Sinai. Secondo le prime ricostruzioni delle autorità egiziane ci sono oltre 180 morti e più di cento feriti (con un conteggio in continuo rialzo, ma si tratta di numeri che escono principalmente dall’agenzia locale Mena: il bilancio è provvisorio e per niente accertato). Sotto il fuoco degli attentatori è finita una moschea sufi: i fedeli, riuniti per la preghiera mattutina del venerdì, sono stati sorpresi dagli ordigni lanciati o piazzati all’interno dell’edificio, poi, su chi riusciva scappare sono piovute raffiche di armi automatiche; alcuni soccorritori hanno riferito ai media locali che gli assalitori hanno sparato anche contro le prime ambulanze arrivate sul posto. Secondo le fonti dell’Associated Press, gli attentatori sarebbero piombati sulla moschea scendendo da quattro pick-up.

Al momento della stesura di questo articolo, non ci sono state rivendicazioni, ma è noto che l’area è infestata dallo Stato islamico e la tipologia d’attacco è molto simile a quella dei gruppi radicali islamici, anche se più spesso i baghdadisti egiziani hanno preferito come bersagli le forze di sicurezza piuttosto che i civili (però val la pena ricordare che questo modus operandi non è esclusivo, e luoghi di culto, come le chiese cristiane di Tanta e Alessandria, erano già state colpite dal gruppo ad aprile; e lo Stato islamico ha spesso preso di mira i sufi, un culto mistico interno all’Islam che per il Califfato è impuro ed eretico). Il Sinai dal novembre 2014 è diventato una provincia satellite del Califfato, perché il gruppo combattente locale (noto prima come Ansar Beit al Maqdis, che mescola rivendicazioni indipendentiste alla predicazioni jihadista), ha giurato fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi.

La Wilayat Sinai è il più operativo degli hotspot califfali, in un momento in cui il territorio centrale controllato dal gruppo in Siraq si è ridotto al minimo sotto la campagna minuziosa guidata dagli Stati Uniti, e – soltanto in queste ultime settimane – all’azione russa sui residui, deboli, baluardi in Siria. La provincia del Sinai ha già compiuto stragi enormi: i baghdadisti egiziani hanno rivendicato l’attentato contro il volo russo della Metrojet in cui morirono 224 persone il 31 ottobre. Per la sofisticazione delle azioni, si pensa che possa agire in diretto contatto con la spina dorsale del Califfo.

Venuta meno questa dimensione statuale dell’IS, il campo è lasciato alla guerriglia (una sorta di ritorno alle origini, quando il gruppo tempestava l’Iraq ai tempi dell’occupazione americana). Sia sul suolo iracheno, sia in quello siriano, che nelle aree esterne all’ormai ex Califfato, restano spurie combattenti. Qualche giorno fa il Pentagono ha reso noto, per esempio, un nuovo raid aereo sulla Libia, dove la provincia locale che aveva roccaforte a Sirte è stata sconfitta nell’estate del 2016, e dove il gruppo s’è disperso verso il sud del paese. O ancora: lo scorso mese un contingente ridotto dei Berretti Verdi americani è caduto in un’imboscata studiata da un gruppo affiliato all’IS in Niger.

Dall’ottobre del 2014 (un mese prima della baya al Califfo), quando furono uccisi 30 uomini delle forze di sicurezza egiziane nel Sinai, il Cairo dichiarò lo stato di emergenza nella provincia. La regione è oggetto di una campagna militare indicata dal governo come uno stato di guerra; gli egiziani informalmente collaborano sul confine orientale anche con Israele, in uno dei vari contatti che Gerusalemme ha aperto con gli stati arabi vicini per garantirsi la sicurezza nazionale.

(articolo aggiornato alle 17:37)

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