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Dopo decenni di coccole alle case automobilistiche, i politici tedeschi stanno voltando le spalle a un settore soffocato dagli scandali, che molti elettori ora vedono come motivo di imbarazzo piuttosto che fonte di orgoglio nazionale. Nel primo discorso pubblico per la campagna del quarto mandato elettorale, a inizio mese il cancelliere Angela Merkel ha bastonato i principali player locali e la loro dirigenza per la loro risposta inadeguata agli ormai due anni di dieselgate. I commenti sono giunti il giorno dopo che il rivale, il presidente del Partito Socialdemocratico Martin Schulz, si è impegnato, in caso di vittoria, a introdurre una quota obbligatoria per i veicoli elettrici, tecnologia che i produttori tedeschi sono stati lenti ad abbracciare, sulle vendite.

La critica è una novità per una classe politica che da anni favorisce gli interessi dei più rinomati costruttori del Paese, i cui ambiti prodotti incarnavano l’eccellenza tecnica, l’eleganza nel design e la forza economica. Quando lo scandalo delle emissioni è esploso con il mea culpa di Volkswagen per avere manomesso milioni di automobili al fine di ingannare le autorità ambientali – scandalo che più tardi ha inghiottito altre case tedesche – i giganti un tempo ammirati si sono trasformati in una debolezza a livello politico.

Da un recente sondaggio pubblicato da Ard emerge che per due terzi degli elettori il governo è stato troppo indulgente e quasi il 60% degli intervistati ha dichiarato di aver perso fiducia nell’industria automobilistica. Lo stesso studio mostra che l’indice di gradimento della Merkel è crollato di 10 punti in un solo mese a un tuttora solido 59% in agosto. Sempre questo mese, l’Unione europea ha confermato un’indagine preliminare sulle case tedesche con l’accusa di avere agito da cartello per il controllo sui costi delle apparecchiature per l’emissione di gasolio e altre tecnologie.

Resta da capire se esiste un legame tra la cattiva pubblicità del dieselgate e il calo nel consenso, ma la Merkel non intende correre rischi: «Buona parte del settore auto ha giocato con la fiducia dei cittadini e ha perso. Ora devono riconquistarla», ha detto il 12 agosto a una convention a Dortmund per il lancio della campagna. «E quando dico il settore, intendo soprattutto il management». Mentre ha respinto la proposta di Schulz, ha dedicato quasi metà del discorso di oltre un’ora a discutere dello stato dell’industria, richiedendo più responsabilità ai top manager e battendosi per gli 800 mila operai tedeschi.

In un diesel summit ospitato dal governo a inizio mese, le case auto hanno deciso di aggiornare il software su milioni di vetture diesel per abbassare l’impatto ambientale e offrire sconti fino a 10 mila euro ai proprietari di vecchi diesel. Per Merkel «è il minimo» e, se a settembre sarà riconfermata, ha anticipato un secondo summit in autunno per trattare ulteriori misure. Daimler ha rifiutato di commentare le parole della Cancelliera, Volkswagen non ha risposto e il portavoce di Bmw ha detto che la società nega la manipolazione di veicoli diesel, una tecnologia chiave per combattere le emissioni di gas serra. Secondo gli analisti è improbabile che il dieselgate diventi decisivo sul piano elettorale. Merkel sembra destinata alla vittoria. Infatti, facendo a pezzi le case auto, «cerca di neutralizzare la questione affrontandola in anticipo per cancellare qualsiasi differenza tra lei e il suo avversario», spiega Jürgen Falter, professore di scienze politiche all’Università di Mainz. «Così il problema svanisce».

Tuttavia, sia per Berlino che per l’automotive i guai si protenderanno oltre le elezioni. La Commissione europea minaccia di portare alcune città tedesche alla Corte di giustizia europea per presunta violazione dei trattati a causa del sistematico superamento dei limiti comunitari di inquinamento atmosferico. La prospettiva sta spingendo alcuni sindaci a considerare il divieto di ingresso in città ai veicoli diesel, terribile minaccia per un settore che rimane fortemente dipendente da tale tecnologia. Stando ai dati governativi, il 40,5% delle nuove vetture in circolazione in Germania a luglio è diesel, in calo rispetto al 47,1% dell’anno precedente. L’istituto federale dell’ambiente ha illustrato in un rapporto pubblicato mercoledì scorso che gli sforzi del settore per aggiornare il software sulle vetture diesel ridurrebbero l’inquinamento di una media del 6%, un impatto davvero marginale.

Per quanto il governo non sia intenzionato a cancellare totalmente il supporto all’industria automobilistica, secondo gli esperti in questo contesto non sarà così auto friendly come in passato. Merkel incontrerà i sindaci nei prossimi mesi per discutere degli incentivi per promuovere l’elettrico. Inizierà dalle città direttamente minacciate dall’indagine europea, come Stoccarda, luogo di nascita dell’automobile e città natale di Mercedes-Benz e Porsche; Monaco di Baviera, dove ha sede Bmw ; e Düsseldorf, uno dei centri più popolati del Paese.

La recente strigliata propagandistica rappresenta un notevole cambiamento di tono per la Cancelliera. Nel 2010, durante un meeting con Arnold Schwarzenegger e altri membri del governo della California, Mary Nichols, capo dell’Air Resources Board, aveva affermato che la California «aveva danneggiato i produttori di auto tedesche» con i suoi rigorosi limiti sull’ossido di azoto. Tre anni più tardi, dopo che l’Unione raggiunse un’intesa sui gas serra, che la Merkel riteneva punisse in modo sproporzionato i produttori di auto tedesche di lusso, telefonò all’allora primo ministro britannico David Cameron e lo persuase a ritirare il suo appoggio. Nei mesi successivi gli azionisti di controllo di Bmw rivelarono una donazione di 690 mila euro a favore della festa del Cdu, il partito del cancelliere. «In passato, pochi hanno messo in discussione lo straordinario supporto politico di cui il settore ha goduto», ricorda Philippe Houchois di Jefferies Securities. «Ma ora sta diventando un ostacolo che potrebbe mettere a rischio dei voti».

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

Traduzione di Giorgia Crespi da The Wall Street Journal

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