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(Articolo ripreso da www.graffidamato.com)

Il rischio che corre ora il ministro dell’Interno Marco Minniti è di perdere la guerra, sul fronte della gestione dell’immigrazione, dopo avere vinto una battaglia pur decisiva come quella ingaggiata contro le ambiguità, i trucchi e quant’altro delle organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi ai migranti nelle acque del Mediterraneo con le loro navi. Che spesso non sono di soccorso, ma semplicemente di trasporto, ricevendo i migranti dai cosiddetti scafisti, come si chiamano i disumani trafficanti di gente disperata, cioè dandosi appuntamenti con loro, o quasi, anche a poche bracciate di nuoto dalle coste libiche. Dove è augurabile che la musica sia cambiata, dopo la svolta di Minniti, visto che i libici, appunto, hanno appena allontanato col fuoco dalle loro coste una nave “umanitaria” spagnola pronta al solito trasbordo con destinazione probabilmente italiana.

Minniti vanificherebbe la battaglia vinta con l’aiuto decisivo del presidente della Repubblica, schieratosi con lui per evitarne le dimissioni dopo avere polemicamente disertato una riunione del governo in cui il collega Graziano Delrio lo attendeva per fargli le pulci dall’alto delle sue troppo numerose competenze, dai lavori pubblici ai trasporti e alla marina mercantile, dai porti ai guardiacoste; Minniti, dicevo, vanificherebbe la battaglia vinta con l’aiuto del capo dello Stato se continuasse a fare il finto tonto. O semplicemente il diplomatico, che non è la sua funzione. Lui non può ripetere, come purtroppo ha detto, che non c’è “nessuna divisione con Delrio”. Che invece, non sentendosi giustamente un diplomatico, ha confermato di avere problemi col ministro dell’Interno, tanto da averlo attaccato, con regolare intervista, per essersi sottratto a un confronto con lui nella seduta del Consiglio dei Ministri dove era atteso.

Minniti deve essere ora quello che ha preteso di diventare giustamente usando tutte le armi a disposizione di un politico, a cominciare dalla minaccia delle dimissioni, pur non ufficialmente confermata, anche se pare esista addirittura una lettera di dimissioni, appunto, scritta dopo un tentativo inutile di chiarimento telefonico col presidente del Consiglio in persona, Paolo Gentiloni, immediatamente prima della riunione del governo.

Il ministro dell’Interno farebbe un errore se si lasciasse trattenere dalle voci, raccolte da vari giornali, di un segretario del suo partito, Matteo Renzi, sospettoso o addirittura geloso della popolarità crescente del titolare del Viminale, e anche per questo incline a dare una mano a Delrio. Col quale pure – va detto anche questo – egli ebbe occasioni di dissentire, diciamo così, quando lo assunse a Palazzo Chigi come braccio destro in veste di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, prima di liberarsene mandandolo al dicastero delle Infrastrutture. Dove c’era da sostituire il dimissionario Maurizio Lupi, del partito di Alfano, incorso nell’infortunio di un orologio offerto al figlio da un amico che aveva però rapporti amministrativi con lui.

Personalmente non credo che Matteo Renzi sia davvero tentato, qualunque ne fosse la ragione, dall’idea di preferire la posizione di Delrio a quella di Minniti sul fronte della lotta ai trafficanti di carne umana da troppo tempo lasciati impuniti nelle acque del Mediterraneo, e sulla terraferma libica.

Il segretario, anzi risegretario del Pd ha commesso già troppi errori nella sua ormai non breve esperienza di partito, e di governo, ricordando i mille giorni e più trascorsi a Palazzo Chigi prima della clamorosa sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, per permettersi il lusso di compiere anche questo, di errore. Sarebbe semplicemente la sua tomba elettorale, sia pure con la prece del solito, immancabile monsignor Nunzio Galantino, o del Papa in persona.

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