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Tutto rinviato a settembre o forse ancora più in là. Mario Draghi oggi non ha dato indicazioni su quando (e se) cambierà la politica monetaria della Banca centrale europea, sia riguardo i tassi d’interesse (che restano invariati) sia sulla progressiva riduzione dell’acquisto di titoli sul mercato (il quantitative easing). Non perché la politica monetaria espansiva non funzioni, anzi Draghi ha detto che il suo impatto sulla economia reale è stato un successo visto che ha contribuito a creare 6,4 milioni di posti di lavoro. Ma perché i prezzi ancora non rispondono, l’inflazione non viaggia al ritmo sperato, cioè al due per cento di aumento annuo. Come mai?

È questo l’interrogativo al quale i banchieri centrali cercano risposta; non solo Draghi, ma anche Janet Yellen come sottolinea un articolo del Wall Street Journal (la Federal Reserve discuterà la prossima settimana la sua strategia). I mercati europei hanno reagito con sollievo alle parole di Draghi e l’euro s’è impennato fino al livello più alto in 14 mesi. Per contro il dollaro è sceso, tuttavia sull’andamento della valuta americana influisce in modo rilevante non solo la politica della Fed, ma la politica (o non politica) di Trump le cui promesse (dalle tasse all’Obamacare al commercio internazionale) si stanno rivelando fuffa.

Per cercare una risposta al mistero della bassa inflazione, Draghi ha fatto riferimento ancora una volta al comportamento anomalo dei salari. Generalmente, in una fase di ripresa della economia il prezzo del lavoro tende a salire spingendo in alto l’intera impalcatura dei prezzi interni. Invece questa volta le cose non vanno così. I salari sono cresciuti oltre il due per cento solo per pochi mesi nell’inverno 2014-2015 poi sono scesi di nuovo sotto la “linea rossa” nonostante un continuo miglioramento della crescita nell’area euro. “È un mutamento strutturale, siamo in presenza di cambiamenti profondi – si è chiesto Draghi – Oppure prima o poi torneremo alla normalità? Io credo che prima o poi torneremo alla relazione tradizionale tra aumento dell’occupazione, del prodotto lordo e delle retribuzioni, ma non sappiamo quando. Per questo dobbiamo essere persistenti, pazienti e prudenti”.

Agli economisti tedeschi, i guardiani dell’ortodossia annidati nell’Ifo, l’istituto di studi della congiuntura, che ancora ieri chiedevano che la Bce annunciasse la fine del Qe, Draghi ha risposto con una lezione di economia classica sulle variabili chiave (salari, occupazione, prezzi, produzione). Ma, al di là della continua e ormai stucchevole polemica o dell’inutile tentativo di sapere quando finirà il Qe (ieri il presidente della Bce ha respinto tutte le illazioni dei giornalisti), è importante sottolineare proprio la questione dei salari. Draghi l’ha sollevata già da tempo, ne ha parlato in modo esteso il 27 giugno al forum di Sintra, un discorso che è stato mal interpretato dai mercati come il preannuncio della svolta in politica monetaria.

Il presidente della Bce, invece, ha spiegato con chiarezza professorale tutte le anomalie che ancora si presentano nella attuale ripresa: produttività, crescita ineguale all’interno della zona euro, fattori esterni come petrolio o materie prime e interni come un mercato del lavoro più flessibile e competitivo. Queste anomalie inducono il banchiere centrale ad attendere scrutando con il microscopio i comportamenti dei soggetti chiave dell’economia.

In sostanza, si andrà avanti ancora con la moneta facile e l’acquisto di titoli fino a dicembre e forse anche oltre, finché sarà necessario. E sul wait and see sono stati tutti d’accordo. Ciò sposta tuttavia l’onere sulle spalle dei governi, delle imprese, dei lavoratori.

La questione dei bassi salari può essere affrontata in due modi: o con aggiustamenti fiscali (riducendo le tasse sul lavoro e sui lavoratori, dunque non solo il cuneo fiscale, ma le aliquote delle imposte sui redditi), oppure con una contrattazione più favorevole alla manodopera impiegata che ai datori di lavoro. O magari si può agire usando consapevolmente entrambe le leve. Dipende da come stanno i conti pubblici (ecco perché è necessario averli in ordine, bisognerebbe ricordare a tutti gli spendaccioni di sinistra) e dai rapporti di forza sul mercato del lavoro (per questo bisogna abbassare il tasso di disoccupazione) e nelle imprese (contratti di lavoro aziendali possono favorire una ripresa dei salari più che non la rigida contrattazione centralizzata).

È una discussione che non spetta ai banchieri centrali, ma Draghi l’ha messa sul tavolo. Se ci sono forze politiche intelligenti, imprenditori illuminati e sindacati ragionevoli, il puzzle può essere risolto aiutando anche la Bce a tornare alla normalità. L’invito vale per i paesi più forti come la Germania, ma anche per quelli più deboli come l’Italia. Chissà se a Berlino hanno orecchi per intendere? Perché a Roma non ci sono, su questo oggi siamo sicuri.

MARIO DRAGHI

Chi non ascolta Mario Draghi in Germania e in Italia sui salari

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