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Il comunicato finale del G20 di Amburgo consegna un’immagine delle relazioni internazionali del tutto nuova rispetto all’ultimo appuntamento a Hangzhou. Eppure sono passati solo 9 mesi da quando a settembre si erano riuniti i 20 leader dei Paesi più industrializzati. All’epoca Barack Obama sedeva alla Casa Bianca, lodava il libero commercio e il Ttip tra Ue e Usa navigava in acque non ancora tempestose. Ma l’era Obama non è mai sembrata così lontana come in questo G20 tedesco, dove in diciannove si sono ritrovati ancora una volta a corteggiare, accontentare ma soprattutto fronteggiare il presidente americano Donald Trump.

Come all’alba del G7, tutti avevano previsto che su clima e commercio il Tycoon non avrebbe fatto sconti. E infatti uno sguardo attento ai comunicati finali degli ultimi due G20 non può non notare un vero e proprio ribaltamento della concordia di facciata di Hangzhou. Come al termine di ognuno di questi consessi globali, ogni paragrafo del comunicato finale è espressione di maggioranze sempre diverse e create ad hoc, s’intende, con voti ponderati con pesi e misure differenti. A cominciare dal commercio, la divergenza delle dichiarazioni conclusive dei due G20 è lampante. Nell’incontro del 2016 in Cina i leader promettevano solennemente di “lavorare più duramente per costruire un’economia aperta e globale, rigettare il protezionismo, promuovere il commercio globale e gli investimenti, anche attraverso il rafforzamento del sistema di commercio multilaterale”. Insomma, una dichiarazione d’amore al multilateralismo e al liberismo commerciale perfettamente concertata.

Lo stesso paragrafo nel comunicato di Amburgo suona un’altra musica. Tra i meriti elencati del commercio internazionale si cita subito “la creazione di posti di lavoro”, una nota tutta trumpiana, che su quel tema ha costruito la campagna elettorale e quella anti-TTIP. Ma il vero assist agli Stati Uniti sta nel “riconoscere il ruolo dei legittimi strumenti di difesa nel commercio” e nella condanna, tanto attesa da Trump, del dumping (soprattutto cinese) nel commercio di acciaio, su cui in America incombono già dazi del 20-25%. I paesi responsabili sono stati invitati a “sviluppare soluzioni politiche concrete per ridurre l’eccesso di capacità dell’acciaio”. Al dumping cinese si riferisce ancora la condanna, oltre che del protezionismo, di “tutte le pratiche di commercio sleali”.

Ma è sul clima, e più precisamente sul rispetto degli accordi di Parigi (Coop21), che l’effetto Trump distanzia anni luce il comunicato finale di Hangzhou da quello di Amburgo. “Noi ci impegniamo ad osservare le nostre rispettive procedure nazionali per rispettare l’Accordo di Parigi” recitavano i venti leaders in Cina. “Noi”, quindi anche e soprattutto gli Stati Uniti. Ma Trump ha già chiarito più volte di voler tirare fuori dal Coop21 il suo Paese. E ad Amburgo per la prima volta un comunicato finale prende atto di due posizioni agli antipodi: gli Stati uniti abbandonano l’accordo, gli “altri membri del G20 dichiarano che l’accordo di Parigi è irreversibile”. Un chiaro monito a Trump: una volta fuori dal Coop21, impossibile rinegoziarlo. Il comunicato non manca però di ricordare che l’accordo sul clima sarà implementato “sulla base del principio di responsabilità comuni ma differenziate e delle rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali”. Una sottolineatura che sembra dimostrare che qualcun altro dei paesi firmatari comincia a borbottare su quegli accordi, e soprattutto di come la retromarcia di Trump rischi di diluirli e delegittimarli.

Sorprende infine notare quanto sia ingeneroso e angustio lo spazio riservato nel comunicato di Amburgo a due drammi di questo tempo che i cittadini (europei in prima linea, lo dicono i sondaggi di Eurobarometro) sentono come prioritari: l’immigrazione e il terrorismo. Probabilmente per la difficoltà di conciliare venti potenze globali su temi così spinosi. Resta tuttavia difficile spiegarsi perché questi due fenomeni in continua escalation abbiano trovato più spazio un anno fa. Alla crisi migratoria, nonostante l’aumento vertiginoso degli sbarchi in Europa negli ultimi mesi, le conclusioni di Amburgo dedicano mezza paginetta, esattamente come a settembre. Prevale la linea Macron quando si difende “il diritto sovrano degli stati di gestire e controllare i propri confini e in questo senso di stabilire politiche nel rispetto dell’interesse e della sicurezza nazionale”.

Chi invece cerchi incuriosito la parola “terrorismo” nel pdf del comunicato del recente G20 non perderà molto tempo: appare solo una volta, citata in un lungo elenco accanto alla povertà, alla fame, alla disoccupazione, alla sicurezza energetica. Tutte emergenze a cui oggi si deve far fronte, si capisce. Ma è possibile che meno di un anno fa quella parola riempisse quattro paragrafi, e quest’anno sia relegata a un semplice punto dell’agenda? Durante gli incontri di Amburgo si è discusso, come ad Hangzhou, della lotta al finanziamento dei terroristi tramite la già operante Financial Action Task Force (Fatf). Tuttavia la quasi totale assenza del tema dal comunicato finale non può non sollevare legittimi dubbi sull’effettiva incisività di questi consessi multilaterali.

Ecco il vero effetto Trump sul comunicato finale del G20 di Amburgo

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