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Pubblichiamo alcuni brani delle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco tenute nel corso dell’assemblea annuale della Banca d’Italia.

Gli effetti della crisi non potevano non riflettersi sui bilanci delle banche. Tra il 2007 e il 2015 l’incidenza sugli impieghi bancari dei crediti in sofferenza (le esposizioni, cioè, nei confronti di debitori insolventi) è più che triplicata, raggiungendo un livello comunque inferiore al picco della metà degli anni Novanta (fig. 6). Le difficoltà degli intermediari sono state acuite, in diversi casi, da comportamenti fraudolenti e scelte imprudenti nell’erogazione dei prestiti.

Alla fine dello scorso anno i crediti deteriorati delle banche italiane, iscritti nei bilanci al netto delle rettifiche di valore, erano pari a 173 miliardi, il 9,4 per cento dei prestiti complessivi. L’ammontare di circa 350 miliardi, spesso citato sulla stampa, si riferisce al valore nominale delle esposizioni e non tiene conto delle perdite già contabilizzate nei bilanci; esso non è pertanto indicativo dell’effettivo rischio che grava sulle banche.

Dei 173 miliardi di crediti deteriorati netti, 81 miliardi, il 4,4 per cento dei prestiti totali, riguardano crediti in sofferenza, a fronte dei quali le banche detengono garanzie reali per oltre 90 miliardi e personali per quasi 40. Vi sono poi 92 miliardi di altre esposizioni deteriorate, già svalutate per circa un terzo del valore nominale; per una parte di queste il ritorno alla regolarità dei pagamenti è certamente possibile, in una misura legata ai tempi e alla forza della ripresa; una gestione attiva da parte delle banche è necessaria per ridurre significativamente la quota che si trasforma in sofferenze.

Tre quarti delle sofferenze nette sono detenuti da banche le cui condizioni finanziarie non impongono di cederle immediatamente sul mercato. Quelle che fanno capo a intermediari che stanno attraversando situazioni di difficoltà e possono trovarsi nella necessità di disfarsene rapidamente ammontano a circa 20 miliardi. Come abbiamo documentato, i valori ai quali i crediti in sofferenza sono iscritti nei bilanci sono in linea con i tassi di recupero effettivamente osservati negli ultimi dieci anni. Se fossero venduti ai prezzi molto bassi offerti dai pochi grandi operatori specializzati oggi presenti sul mercato, che ricercano tassi di profitto molto elevati, l’ammontare di rettifiche aggiuntive sarebbe dell’ordine di 10 miliardi.

Alla fine del 2011 le sofferenze nette delle banche italiane erano pari al 2,9 per cento del totale dei prestiti. Un intervento “di sistema” sui crediti deteriorati, con un importante contributo pubblico sulla falsariga di quanto era avvenuto in altri paesi, non appariva giustificato, né possibile. L’aumento delle sofferenze non era concentrato in uno specifico settore dell’economia; le previsioni macroeconomiche formulate nel corso del 2012 erano ben più favorevoli dei risultati poi conseguiti. Con l’acuirsi delle tensioni sul mercato dei debiti sovrani, un intervento dello Stato sui crediti deteriorati non appariva compatibile con le condizioni di finanza pubblica.

La situazione è rapidamente cambiata negli anni immediatamente successivi. La crisi economica si è protratta e accentuata ben oltre le previsioni; il conseguente aumento dei fallimenti d’impresa e della disoccupazione ha alimentato la crescita delle sofferenze nette, che raggiungevano il 4,8 per cento dei crediti nel 2015. Il rientro delle tensioni sul mercato dei titoli di Stato, avviatosi dalla seconda metà del 2012, si consolidava nel corso del 2013, rendendo a quel punto auspicabile la costituzione di una società di gestione degli attivi bancari deteriorati con supporto pubblico, ipotesi che noi abbiamo attivamente sostenuto. La realizzazione dell’intervento è stata tuttavia impedita dagli orientamenti in materia di aiuti di Stato assunti dalla Commissione europea a metà del 2013.

Nei mesi scorsi, anche a seguito delle proposte elaborate da istituzioni europee, si è tornati a discutere di una tale iniziativa. Siamo ancora convinti che sarebbe una misura potenzialmente utile, a condizione che il prezzo di trasferimento degli attivi non sia distante dal loro reale valore economico, che l’adesione allo schema da parte degli intermediari avvenga su base volontaria, che le caratteristiche dei piani di ristrutturazione delle banche partecipanti siano ben definite ex ante. Va al più presto chiarito se vi è un’effettiva determinazione a proseguire su questa strada: l’incertezza rallenta la definizione delle transazioni in corso, scoraggia quelle che potrebbero realizzarsi nei prossimi mesi.

Nel 2016 si sono ridotti sia i flussi di crediti deteriorati sia l’incidenza del loro stock e di quello delle sofferenze sul totale dei prestiti. La prosecuzione della ripresa sostiene queste tendenze. Le operazioni di cessione attualmente programmate dai maggiori gruppi potranno accrescere significativamente l’entità della riduzione del rapporto tra sofferenze nette e impieghi. L’elevata consistenza e i bassi prezzi di mercato delle esposizioni deteriorate riflettono tempi di recupero eccessivi, molto più lunghi che negli altri principali paesi. Alla fine del 2015 la durata effettiva era in media di quasi otto anni per le procedure fallimentari, di oltre quattro per quelle esecutive immobiliari.

Gli interventi legislativi degli anni scorsi muovono nella giusta direzione ma perché si riduca congruamente il periodo di recupero dei crediti devono essere rafforzati. Sarebbe particolarmente utile accrescere il grado di specializzazione nella trattazione della materia concorsuale, prevedendo l’accentramento dei procedimenti più complessi anche attraverso la revisione della competenza territoriale.

Dal canto loro le banche devono utilizzare al meglio gli strumenti già disponibili sul fronte degli accordi stragiudiziali con le imprese per la ristrutturazione dei debiti e per il trasferimento dei beni immobili conferiti in garanzia. Come mostrano nostre analisi recenti, incentivi allo smobilizzo dei prestiti deteriorati deriverebbero dalla rimozione di oneri regolamentari alla vendita di queste attività da parte di banche che utilizzano modelli avanzati per il calcolo dei requisiti patrimoniali.

La disponibilità di informazioni adeguate e tempestive rende meno onerosa la gestione degli attivi deteriorati, aumentandone il valore; un’armonizzazione a livello europeo faciliterebbe la comparabilità dei dati, con riflessi positivi sui prezzi e sulla rapidità delle transazioni. La segnalazione sulle sofferenze che abbiamo introdotto lo scorso anno va in questa direzione, inducendo le banche a gestire attivamente, con più efficacia, questa tipologia di esposizioni. La Vigilanza è consapevole della necessità di non forzare politiche generalizzate di vendita dei crediti deteriorati che conducono, di fatto, a un trasferimento di risorse dalle banche italiane a pochi investitori specializzati.

Ma, come indicato nelle recenti linee guida emanate in sede europea con il contributo della Banca d’Italia, gli intermediari maggiori (oggi definiti “significativi” nell’ambito del Meccanismo di vigilanza unico) devono dotarsi di strategie per migliorare la gestione di tali attivi e di piani operativi contenenti obiettivi ambiziosi, volti a diminuirne l’ammontare in modo progressivo e consistente. Diverse sono le opzioni possibili: la costituzione di unità di gestione separate e specializzate, il ricorso a gestori esterni, la vendita dei portafogli sul mercato. Stiamo lavorando all’estensione delle linee guida alle banche da noi vigilate direttamente.

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