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La questione epocale dei migranti, che da anni caratterizza e tormenta l’Europa, è giunta in questi giorni al suo passaggio essenziale. Non soltanto è assolutamente evidente che il flusso continuo di esseri umani che giungono nelle coste italiane sembra inarrestabile, ma la solitudine dell’Italia è penosamente divenuta lo spauracchio dirimente del Parlamento europeo.

Come si fa, d’altronde, a pensare che si è parte di una realtà politica comune per quanto riguarda oneri e doveri, e poi si deve restare isolati e abbandonati nella gestione di una situazione tanto immane come quella di dare soccorsi umanitari a interi popoli?

Da questo punto di vista si alternano due posizioni specifiche tra i partner dell’Unione. Quello di chi come Junker elogia il nostro Paese e batte i pugni sul tavolo per esortare a un cambio di marcia, e quello dell’Austria e della Francia che perseverano invece nel proprio egoismo nazionale ed elettorale.

Il nostro atteggiamento, per suo conto, si sta palesando come ambivalente e nebuloso. Da un lato è chiaro che non possiamo andare avanti così, diventando il catino dove si raccolgono i migranti di tutto il mondo, una terra di confine tra civiltà, ignara e ignorata da tutti, e dall’altro non possiamo rinunciare a un’attitudine alla solidarietà che ci caratterizza umanamente, prima ancora che politicamente.

Certamente dietro l’accoglienza totale con cui ci siamo approcciati al problema fin dall’inizio si sono ormai cristallizzati interessi economici divenuti quasi strutturali e una situazione demografica che non permette chiusure radicali e totali. Questo fatto insindacabile, tuttavia, non autorizza a irresponsabili previsioni ottimistiche sul contributo che i migranti daranno al risanamento futuro della nostra previdenza sociale, e tanto meno a palingenetiche integrazioni automatiche di oltre ottantamila nuove presenze umane. La miseria giustifica gli aiuti ma di per sé rappresenta un costo e non un beneficio, se non per chi guadagna ignobilmente su questa tragedia.

L’Europa ha deciso di dare all’Italia nuovi aiuti, quasi a limitare la vergogna della chiusura del Brennero e l’indifferenza del nord del continente a quanto avviene a sud.

Darci soldi è ovviamente importante, ma non risolve la sostanza della questione.

Come si diceva, l’Italia continua a vagare nella contraddizione. I parlamentari del Pd protestano con cartelli a Strasburgo ma al Senato la stessa maggioranza si vede impegnata per una legge sullo Ius soli che, al di là del merito, appare assurda e inopportuna alla gente comune.

Non è intelligente discutere, infatti, su come definire l’essenza della cittadinanza di domani mentre finisce una deludente legislatura e durante una crisi umanitaria in atto, guardando arrivare barconi su barconi pieni di disperati.

Noi cosa vogliamo essere: la nuova frontiera del multiculturalismo oppure il primo Paese che gestisce e governa razionalmente e con una certa risolutezza culturale l’immigrazione? Sì, perché tutte due insieme queste linee non si tengono e non si giustificano. I reclami morali all’accoglienza sono cristianamente importanti, ma non è che la Spagna sia diventata atea perché presidia le proprie frontiere con rigore. Non vanno cercati alibi ideologici, ma vanno piuttosto tenute posizioni politiche chiare, coerenti e lungimiranti.

Gli italiani non vogliono in questo momento una legge che allarghi la cittadinanza, proprio come un povero non ritiene rassicurante che aumentino i poveri che non conosce attorno a lui.

Qui in questione non c’è umanità e disumanità, ma ragionevolezza e assurdità. Se per noi il problema è rinegoziare a Tallinn la gestione comunitaria dell’immigrazione, allora si cominci a far vedere che non si è propensi a bonificare il fenomeno trasformando miracolosamente una malattia in salute: e allora, e soltanto allora, si battano i pugni sul tavolo. Anche perché Francia, Inghilterra e Germania mostrano chiaramente che la loro integrazione fai da te non è automatica, necessaria e ineluttabile, ma humus produttivo di ghettizzazioni esplosive. E la loro ricetta funzionerebbe ancor meno per la povera Italia, che incede a passo claudicante da decenni in una recessione demografica ed economica che non conosce fine. I processi di integrazione sono lunghi e faticosi, tanto quanto i pregiudizi e le diffidenze sono e restano difficili da eliminare.

Se c’è una cosa sicura però, alla fin fine, è che la cittadinanza non dipende dal suolo ma dall’identità condivisa dei valori di chi abita i luoghi. La nazione non è una sostanza contrattuale, ma una trama profonda di relazioni tra persone, che condividono le stesse mentalità nel tempo lungo della storia, e ne trasmettono l’ordito pian piano di generazione in generazione. Solo su questa base comune che non si crea a tavolino è possibile che vi sia democrazia e pluralismo. Sono i valori spirituali che fanno essere i popoli, e non il suolo e la geometria degli spazi. Per questo lo Ius soli più che una soluzione appare come il sintomo della malattia, trasformato in parvente e falsa guarigione. In fondo è un modo molto ipocrita con cui si decreta nuovamente illegittimo il vero orgoglio nazionale, e si cancellano le condizioni che rendono possibile anche soltanto concepire l’accoglienza e l’integrazione cristiana.

manchester

Immigrazione, Ius soli e orgoglio nazionale

La questione epocale dei migranti, che da anni caratterizza e tormenta l’Europa, è giunta in questi giorni al suo passaggio essenziale. Non soltanto è assolutamente evidente che il flusso continuo di esseri umani che giungono nelle coste italiane sembra inarrestabile, ma la solitudine dell’Italia è penosamente divenuta lo spauracchio dirimente del Parlamento europeo. Come si fa, d'altronde, a pensare che…

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