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Francesco Giavazzi, passando stamane in rassegna sul Corriere della sera le poche riforme fatte in questi anni e le molte altre a cui sarebbe necessario porre mano, osserva che, per non “lasciarsi sopraffare dallo sconforto”, occorrerebbe “uno sforzo infinitamente minore rispetto all’obiettivo di ‘Riformare l’Italia’” che ci si continua a porre.

Non entro nel merito di quel che propone Giavazzi, con tanto di esempi, cioè “piccole riallocazioni dell’attività economica da settori meno efficienti ad altri più efficienti”. Mi sembrano proposte di buon senso, ma qui il mio discorso vuole essere diverso: slargarsi, da una parte, dalla politica economica alla politica italiana tout court; dall’altra, sviluppare il discorso di Giavazzi sul suo lato metodologico.

È da chiedersi infatti perché i politici italiani, almeno da un quarto di secolo a questa parte, cioè dai tempi della berlusconiana “rivoluzione liberale” (che è una sorta di ossimoro di marca gobettiana), si propongano all’elettorato con parole d’ordine tipo appunto “riformare l’Italia”, oppure “rottamare”. Cioè con l’idea di darle una scossa o uno choc: rivoltandola, come suol dirsi, “come un calzino”. Una volta al governo, fosse pure di un’amministrazione locale, quelle forze non solo non realizzano il “vasto programma” che si erano proposte di realizzare ma spesso contribuiscono non poco al peggioramento della situazione in atto. Con la conseguente disillusione che creano nell’elettorato e la perdita del consenso. Un governo tipicamente riformista quale è stato quello di Matteo Renzi, ad esempio, nel perdere consenso, ha sicuramente scontato anche il fatto di avere usato, almeno all’inizio, una retorica “rivoluzionaria” alla prova dei fatti poco realistica. Non sarebbe forse opportuno, allora, far capire che le vere “rivoluzioni” si realizzano con le piccole azioni quotidiane di manutenzione e con riforme circoscritte e verificabili nell’attuazione? Non sarebbe altresì il caso di proporsi di fare, a tal proposito, un “discorso di verità agli elettori, di non diseducarli con una retorica che si allontana sempre più dal senso del reale?

“La conclusione – ribadisce Giavazzi al termine del suo articolo – è che forse un programma di governo dovrebbe lasciar da parte le ‘grandi riforme’ e concentrarsi su piccole correzioni delle norme”. Se conveniamo con questa opinione, dobbiamo però porci, a mio avviso, anche questioni più radicali e profonde, filosofiche. Ad esempio: concepire l’attività politica come una “realizzazione” di grandi idee, fosse pure in un contesto democratico, non è forse una perversione novecentesca, anzi a ben vedere o forse moderna, del corretto concetto di fare politica? Non è forse la politica stessa, come ci hanno insegnato i greci, una semplice “arte della manutenzione”? Un’arte nobile e importante ma a cui non bisogna dare tutti gli spazi e il credito che noi siamo portati oggi a darle?

E questo modo “razionalistico” di “pensare la politica” non ha forse contagiato anche chi, come i liberali o i riformisti, dovrebbe tenersene lontano? Ad esempio, per quanto benemerita nei contenuti, non assomiglia anche la recente proposta di una flat tax ad una sorta di “pianificazione” su vasta scala? Un piano fiscale soft, certo, ma che si vorrebbe pur sempre “risolutore”. Mi risuonano alla mente le parole con cui Michael Oakeshott, che è stato uno dei più potenti critici del “razionalismo in politica”, individuava già negli anni Sessanta del secolo scorso questa condanna che tocca persino i liberali. “È solamente in una società già profondamente infettata dal Razionalismo -scriveva – che la conversione delle risorse tradizionali di resistenza alla tirannia del Razionalismo in un’impacciata ideologia può essere considerata un consolidamento di tali risorse”. D’accordo, quindi, con Giavazzi: cominciamo ad avere una concezione prometeica o addirittura “salvifica” delle politiche di governo? Aggiungo però che, più radicalmente, per essere ancora più efficaci nel pratico, bisognerebbe che almeno i migliori fra noi avessero anche più consapevolezza delle nostre strutture ultime di pensiero. E che lavorassero, di conseguenza, anche su di esse.

 

Giavazzi, la politica, le rivoluzioni fasulle e le salutari manutenzioni

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