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Ha fatto parlare i giornali di tutto il mondo la recente presa di posizione che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha assunto in materia di immigrazione. Il ministro della Giustizia Jeff Session ha comunicato che, all’interno dello smantellamento promesso in campagna elettorale della politica sociale di Barak Obama, vi sarà da parte di questa amministrazione anche l’abrogazione del programma DACA di difesa della legge che tutela i bambini che sono entrati illegalmente nel Paese quando avevano meno di sedici anni. In fondo si tratta di persone che, avendo avuto meno di trentun anni nel 2012, abbiano dimostrato di risiedere negli Usa dal 2007 e di essere scolarizzati.

L’iniziativa politica ha creato sonore reazioni, non soltanto da parte del mondo culturale, generalmente progressista, ma anche da parte dello stesso Obama che ha deciso di uscire dal silenzio che tradizionalmente caratterizza gli ex presidenti americani per prendere posizione duramente contro questa linea politica. “È una scelta sbagliata – ha tuonato – autolesionista e crudele. I sogni di questi giovani fanno parte del sogno americano e questa decisione cattiva non risolve i problemi”.

Interessante, in questo ben calibrato intervento, è proprio l’accento posto sul “dream”, e sulla carica di idealismo onirico che viene data al mantenimento di questo privilegio.

D’altronde non sono mancate già delle iniziative giudiziarie a New York e Washington contro Trump, oltre ovviamente a manifestazioni soprattutto di giovani immigrati honduregni, messicani e colombiani.

Da parte sua il presidente non sembra intenzionato a recedere, invitando il Congresso ad occuparsi seriamente della questione immigrazione. “Non sono favorevole a punire i bambini – ha precisato il tycoon – ma dobbiamo riconoscere che siamo un Paese che rispetta le leggi”: insomma, opportunità sì, ma nel diritto.

Tralasciando il fatto che la questione è e resta sostanzialmente divisiva, è interessante chiedersi perché vi sia tanta intransigenza da una parte e dall’altra, tanto da spingere Obama ad intervenire e Trump ad affrontare la valanga inevitabile di critiche ostentando i muscoli.

La motivazione è, tutto sommato, semplice. Sull’immigrazione si sta ormai consumando la nuova frattura mondiale tra progressisti e conservatori. Dietro a queste concrete prese di posizione si nasconde, infatti, un’opposta idea di ordine mondiale, e una ancora più opposta idea di ordine sociale, che divide politicamente tutti i Paesi del pianeta.

Se da un lato si interpreta i fenomeni migratori come una risorsa e il mondo come un villaggio globale nel quale la stessa cittadinanza troverà una sua evoluzione, superando i contorni identitari dei tradizionali Stati nazionali; dall’altro si ribadisce invece che questa fase di enorme instabilità globale deriva esattamente da non aver fatto rispettare popoli e confini, addirittura calpestando le leggi, creando certamente tanti sogni legittimi ma anche un enorme caos con velleitarie aspettative personali.

La sinistra e la destra del futuro, tale è il messaggio che viene dagli Stati Uniti, oggi dibattono e si contrappongono proprio su questo essenziale dilemma etico. Non a caso dobbiamo prepararci anche a casa nostra, dove si palesano sempre svariatissime posizioni intermedie, ad una polarizzazione su due lati opposti.

Obiettivamente per discutere bene, due dati di fatto non possono essere obliati. Il primo riguarda il concreto processo di migrazioni che sta definendo il nostro mondo post moderno, il secondo i rischi che ne derivano in termini di sicurezza e di coesione sociale.

Se un progressista immagina lo Stato del futuro solamente come un perimetro geografico nel quale la cittadinanza evolve e si garantiscono al suo interno i diritti di tutti coloro vi passano e risiedono; per un conservatore lo Stato non può perdere completamente il controllo del territorio, non può concedere diritti egualitari in senso cosmopolita senza cauzioni e soprattutto deve garantire l’identità nazionale dei popoli nativi.

È meritorio, dunque, che Trump non si perda in ipocrisie, porti a termine le promesse elettorali e non rimandi il problema all’avvenire. E, d’altronde, è anche logico che Obama intervenga per difendere la sua leadership simbolo del progressismo internazionale, avendo incarnato lui stesso, prima di tutti, quel sogno americano oggi fermato dal brusco risveglio trumpiano.

Il problema assume dei contorni ancora più netti, d’altronde, nella nostra Europa, anche perché, al contrario dell’America, i nostri Stati non sono nati dalla conquista dell’Ovest, ma sono emersi, dopo il frazionamento dell’unità cristiana medievale, come un dato linguistico, culturale e territoriale cruciale per assicurare ordine sociale e stabilità al Vecchio continente.

È vero, infatti, che soprattutto il Mediterraneo è sempre stato migratorio, ma è altrettanto vero che lo Stato nazionale ha costituito la risposta più efficace per creare un equilibrio tra popoli in guerra, e non può essere smantellato senza rischi, specialmente in una fase acuta di guerra terroristica. In Italia, ad esempio, sono emblematici del vento che tira i passi indietro della maggioranza sulla legge per lo Ius Soli.

Ecco perché, in definitiva, la linea Trump non può essere definita se non superficialmente come cattiva, andando invece ripensata nel quadro dei due concetti di mondo che sono destinati a fronteggiarsi dappertutto, cominciando dall’Europa stessa. Obama è simbolo dell’universo multiculturale, Trump del pluriverso identitario. E l’attuale forza del secondo progetto, malgrado tutto le ragioni politologiche che possono essere addotte, riposa alla fin fine specialmente nel totale fallimento del primo.

Anche nella nostra prossima campagna elettorale, dunque, al di là di come andrà a finire la citata legge sullo Ius Soli (tanto voluta dalla sinistra quanto osteggiata dalla destra), ogni forza politica e ogni relativa coalizione dovrà dire chiaramente se sostiene un’idea comunitaria o una multiculturale di Stato, dicendo con ciò anche con che tipo di democrazia intende costruire il futuro: se un tutto globale costituito da solide ed omogenee parti distinte, o se su parti disomogenee costituite al proprio interno dal tutto globale.

Il bisogno di sicurezza locale, in ultima istanza, si scontra inevitabilmente con l’idea della panacea multiculturale, e, come avviene sempre, c’è chi privilegia la realtà e chi invece preferisce continuare a sognare. Questa è la contrapposizione tra la destra e la sinistra del futuro, ed è bene attrezzarsi intellettualmente.

Agli elettori, anche italiani, l’ultima ardua sentenza.

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