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Steve Bannon è il consigliere di Donald Trump più chiacchierato della stampa internazionale. Eminenza grigia dell’Amministrazione, rivendica letture ampie ma controverse e ha dimostrato una straordinaria capacità di intercettare un certo malcontento della classe media americana. Tutti elementi che lo hanno reso amatissimo da alcuni e odiatissimo da altri. Una figura che sicuramente meriterebbe un’analisi più approfondita rispetto ai ritratti macchiettistici che gli vengono dedicati, specie dalla stampa italiana. Ma non è questo il punto, almeno in questa sede. Sarà pure chiacchierato, ma Bannon è anche il consigliere che chiacchiera meno rispetto ai piuttosto loquaci collaboratori di Trump. Dunque è una notizia la sua decisione di alzare il telefono e mettersi in queste ore a conversare con The American Prospect, rivista di nicchia della sinistra americana.

Nell’intervista, Bannon lascia forse a bocca asciutta tanta parte dell’intellighenzia di sinistra a caccia di suoi presunti legami con il Ku Klux Klan e i suoi derivati: “Quelle persone sono un mucchio di clown”, taglia corto il consigliere di Trump. Ma il fulcro dell’intervista è un altro. Bannon infatti insiste su quella che ritiene essere una delle partite decisive della politica estera americana: “Per me, la guerra economica con la Cina è tutto. E dobbiamo essere dannatamente concentrati su questa guerra. Se continuiamo a perdere, vuol dire che ci troviamo a cinque o massimo dieci anni dal punto di svolta, quello in cui non saremo più in grado di recuperare”. Il piano di attacco di Bannon – scrive l’intervistatore di The American Prospect – include fin da subito un ricorso contro i cinesi sulla base della Sezione 301 del Trade Act 1974, per impedire il trasferimento coatto di tecnologia dalle imprese americane che fanno affari in Cina, e poi altri ricorsi sul dumping in corso nei settori dell’acciaio e dell’alluminio. Si tratta, in parole semplici, di fare a sportellate con la Cina sul commercio e sul trattamento riservato alle aziende americane.

Incredibile a dirsi, ma questa linea di pensiero del sulfureo Bannon potrebbe trovare orecchie ben disposte a Roma, e più precisamente a Palazzo Chigi. Secondo un retroscena ferragostano di Alberto Gentili, sul Messaggero, nel governo infatti non avrebbero accolto con gioia le voci di un interessamento cinese a Fiat Chrysler Automobiles (Fca), l’ex Fiat per intenderci. Anche perché, scrive il Messaggero, “i governi italiani non hanno mai brillato nella difesa dell’italianità, come insegna la storia recente con aziende del calibro di Telecom, Pirelli, Ilva, Parmalat, Pioneer (l’elenco è lunghissimo) finite in mani straniere”.

La vicenda Fca se possibile è ancora più complicata, perché l’azienda è per metà americana (per usare un eufemismo, visto che Fca è anche azienda di diritto olandese con domicilio fiscale a Londra), quindi più difficile da influenzare, e allo stesso tempo Fca ha migliaia di lavoratori nel nostro Paese (rimane la prima azienda metalmeccanica italiana).

Cosa sarà degli stabilimenti italiani di Mirafiori, Pomigliano, Grugliasco, o all’impianto di Melfi dove da qualche tempo si producono perfino le Jeep da esportazione, insomma cosa sarà di un importante pezzo della base industriale e occupazionale italiana se Fca dovesse diventare di proprietà cinese? Non si rischierà di avere a che fare con interlocutori evanescenti, come accaduto con altre società italiane rilevate dal Dragone? Gentili, riferendo di colloqui con alcuni consiglieri economici di Palazzo Chigi, attribuisce a uno di loro questo sorprendente virgolettato: “Per fortuna nella pancia di Fca c’è la Chrysler. E per fortuna che c’è Trump. Il presidente americano ha dichiarato una guerra commerciale a Pechino e non farà mai comprare le Jeep americane ai cinesi. Sarà lui a mandare al diavolo i promessi acquirenti” del Paese del Dragone.

Uno sprazzo di realpolitik industriale a Palazzo Chigi, che oggi potrebbe consolidarsi dopo la lettura dell’intervista sino-centrica dell’ascoltatissimo Bannon.

Se Palazzo Chigi è trumpiano su Fca e Cina

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