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La sovrapproduzione di acciaio cinese che tanto fa infuriare Donald Trump si sta rivelando un boomerang per la stessa industria del dragone. Da quando in marzo il governo di Pechino ha annunciato un piano per ridurre di 50 milioni di tonnellate la produzione di acciaio e l’inquinamento che ne deriva, i prezzi del metallo non hanno fatto che aumentare, con i futures che hanno raggiunto questa settimana picchi insuperati dal marzo 2013. Lo scorso lunedì, quando il governo ha obbligato i produttori della provincia di Hebei a dimezzare le operazioni a partire dal prossimo mese per rispettare le nuove regole sull’inquinamento, il prezzo delle bobine laminate a caldo, un prodotto primario nel mercato dell’acciaio, è salito del 5%.

Questa settimana il governo cinese e le società del settore hanno fatto il punto della situazione. Mercoledì si è riunita a Pechino la China Iron and Steel Association (CISA), lobby dell’acciaio che opera sotto l’egida del Partito Comunista Cinese (PCC), per discutere un piano per aumentare l’efficienza dell’industria nei prossimi anni, ma anche di questioni ambientali. Questo giovedì la CISA si è incontrata con ufficiali del governo della Commissione per lo Sviluppo Nazionale e le Riforme (NDRC). Il governo, conferma una fonte anonima a Reuters, teme che l’esagerato aumento dei prezzi dell’acciaio non sia giustificato da fondamentali, ma il frutto di una bolla speculativa.

Nel breve periodo l’aumento dei prezzi è una buona notizia per i profitti dell’industria, che ha rilanciato gli investimenti nel primo semestre del 2017 grazie a un’inaspettata crescita dell’economia cinese, mantenutasi su un target del 6,5%, che ha fatto schizzare i futures annuali dell’acciaio a 3-1/2 (con un picco di 4-1/2 mercoledì 9 agosto). La Cina però, oltre a essere il primo esportatore d’acciaio nel mondo, è anche in cima alla lista dei consumatori, e dunque la volatilità dei prezzi rischia di vessare pesantemente i settori dell’edilizia e delle costruzioni.

Sempre nel primo semestre, Pechino ha tagliato l’export di acciaio del 30%, forse anche per venire incontro alle proteste di americani ed europei, che accusano i cinesi di vendere l’acciaio in eccesso sui mercati globali a prezzi stracciati. Accuse erano giunte dal plurimiliardario Lakshmi Mittal, il proprietario indiano del leader mondiale del settore, la Arcelor Mittal, società con sede a Lussemburgo che produce ogni anno fino a 98 milioni di tonnellate di acciaio. In un comunicato Mittal aveva attaccato il dumping cinese, spiegando come “rimane un motivo di preoccupazione il fatto che non siamo capaci a cogliere tutti i benefici della crescita della domanda a causa dei continui alti livelli di importazioni”.

Il recente taglio di Pechino ha dunque fatto gioire la concorrenza estera: aziende di Paesi come la Corea del Sud, meta preferita dall’export cinese del metallo, possono ora prendersi una pausa dalla concorrenza feroce con le ditte del dragone. A beneficiarne campioni del settore come l’indiana Tata Steel, ma soprattutto l’export delle vicine aziende giapponesi come Nippon Steel, che vendono all’estero più del 40% del loro prodotto. Anche il gigante tedesco Thyssenkrupp ha tratto vantaggio dal rialzo dei prezzi, con il volume delle ordinazioni nel terzo trimestre salito a 12,6 miliardi di dollari.

Lo scorso 30 luglio il presidente americano Trump twittava: “Sono molto deluso dalla Cina. I nostri sciocchi precedenti leaders hanno permesso loro di fare centinaia di miliardi di dollari l’anno nel commercio, eppure…”. Qualora le misure prese da Pechino fossero ritenute insufficienti, Washington potrebbe studiare nuove tariffe e quote sulle importazioni. Un’eventualità che non spaventa solo il mercato cinese. “Qualsivoglia azione venga intrapresa per fermare le importazioni di acciaio, potrebbe portare a una rappresaglia della controparte” ha affermato preoccupato il vice-presidente esecutivo della Nippon Steel Toshiharu Sakae intervistato da Reuters, “i prodotti in acciaio che perdono le loro destinazioni arriveranno in Asia, Giappone incluso, portando a un collasso dei mercati locali”.

L’altra faccia della medaglia della sovrapproduzione d’acciaio cui il governo cinese deve far fronte è costituita dall’inquinamento ambientale. Per tener fede agli accordi di Parigi del 2015 (Coop21), abbandonati invece da Trump, il governo di Xi Jinping è obbligato a ridurre le emissioni. Lunedì 7 agosto otto teams del ministero per la Protezione Ambientale sono stati inviati per il quarto turno di ispezioni ambientali che si chiuderà il 15 agosto e toccherà 8 province: Jilin, Zhejiang, Shandong, Hainan, Sichuan, Qinghai e le province autonome del Tibet e di Xinjiang Uygur.

ivanka trump

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