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Saranno sessante le candeline che l’Ue dovrà virtualmente spegnere quest’anno. Un numero di tutto rispetto per un progetto che non ha eguali al mondo, che ha registrato straordinari successi politici ed economici e che – sembrerà retorica, ma in troppi lo hanno dimenticato o lo ignorano del tutto – ha posto fine ai conflitti che per secoli hanno insanguinato il continente europeo, creando vincoli di collaborazione, responsabilità e solidarietà fra il crescente numero di Paesi che vi hanno aderito. Le celebrazioni di questo importante traguardo saranno però compiute in un’atmosfera carica di circospezione e apprensioni, e quasi contemporaneamente all’avvio del primo, doloroso, e presumibilmente lungo, procedimento di divorzio fra l’Ue e uno dei suoi Stati membri.

Il susseguirsi di crisi, da quella economico-finanziaria a quella dei migranti, il ripetersi di drammatici attacchi terroristici di matrice islamica e la sempre più aggressiva propaganda populista e nazionalista che da queste crisi ha tratto vigore e pretesto, hanno minato la fiducia di tanti cittadini europei nelle istituzioni, nella moneta unica, nella libera circolazione delle persone e nel progetto di integrazione nel suo complesso.

La questione dell’immigrazione è probabilmente uno dei temi più intricati che ha messo a dura prova, negli ultimi anni, la tenuta dell’intesa e della capacità di collaborazione fra quegli Stati che, anche in virtù della propria posizione geografica, si sono trovati ad accogliere decine di migliaia di migranti e richiedenti asilo in fuga da povertà e conflitti, e quelli che, al contrario, hanno preferito chiudere le porte e innalzare muri, nella presunta difesa dei propri cittadini, della propria identità culturale e religiosa, e del mercato del lavoro dall’invasione del diverso.

Si tratta di una questione destinata a rimanere a lungo sul tavolo. Tanto perché gli spostamenti di persone da un Paese e da un continente all’altro hanno sempre avuto luogo e sono destinati a continuare e aumentare, quanto perché essa richiede un’azione su molteplici fronti, tutti estremamente complessi ed essenziali. Dalle cause che determinano gli spostamenti (siano essi volontari o forzati) alla gestione dei flussi, dalla lotta alla tratta e al traffico degli esseri umani alla protezione dei confini, dalle politiche di asilo a quelle di integrazione.

Da un anno a questa parte, sono state molte le iniziative messe in campo da Bruxelles per affrontare la crisi: la controversa dichiarazione Ue-Turchia del marzo 2016; la cooperazione rafforzata con i Paesi terzi annunciata dalla Commissione nella tarda primavera dello scorso anno; il lancio, qualche mese più tardi, della guardia costiera e di frontiera europea; la dichiarazione di Malta di qualche settimana fa, per citare le più importanti. Sembrerebbe tuttavia che l’attenzione dei leader europei sia concentrata sul mero piano securitario, sul contenimento dei flussi, sul tentativo di affidare ai principali Paesi di origine e di transito la responsabilità di interrompere il passaggio dei migranti attraverso il Mediterraneo.

Un tale approccio rischia di essere miope e dannoso per almeno tre ordini di ragioni. Esso affida a Paesi con un quantomeno discutibile record di rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali il compito di accogliere i migranti o rimandarli verso i Paesi di origine, gettando un’ombra inquietante sull’effettivo impegno dell’Ue a difendere libertà e diritti anche al di fuori dei propri confini e a tenere fede ai propri obblighi legali e morali. Inoltre, non è accompagnato da misure volte a favorire l’ingresso legale di immigrati e non tiene conto del fatto che un approccio restrittivo all’immigrazione sembri non avere alcun effetto di deterrenza e, anzi, riduce la propensione del migrante a ritornare in patria. In terzo luogo, perché ignora il valore aggiunto che l’immigrazione porta ai Paesi ospitanti, in termini di sviluppo economico e sociale.

Un approccio che, al contrario, tenga conto di tutti questi aspetti e delle reciproche interrelazioni, che sia di lungo periodo e non il frutto dell’emergenza è essenziale. Di certo, però, si scontra con un’opinione pubblica sempre meno propensa all’accoglienza e sempre più permeabile all’incanto delle soluzioni semplicistiche e radicali proposte dai tanti movimenti e partiti populisti e xenofobi che impazzano in Europa.

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Di Hedwig Giusto

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