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Quando si salvano non una ma due banche mettendo in piedi una rete pubblica a vario titolo di 17 miliardi di euro, di cui 4,78 per un istituto privato che si annette le attività in bonis, significa che si è tornati al caro vecchio salvataggio di Stato, archiviando il temuto bail in, ovvero l’esatto contrario, il salvataggio effettuato dai clienti stessi. E se poi, come promette il governo Gentiloni, depositanti, obbligazionisti senior e creditori subordinati (per l’80% dei loro titoli obbligazionari) saranno tenuti fuori dalla morsa del fallimento – poco si sa invece della sorte di migliaia di cause – si può decisamente tirare un sospiro di sollievo. Ma anche cercare di capire cosa non ha funzionato nelle linee di comunicazione tra Roma e Bruxelles.

Al termine di un lungo week-end di paura, il governo ha così varato un provvedimento d’urgenza per salvare dal fallimento (proprio così, fallimento, in una delle regioni più ricche d’Europa) Veneto Banca e Popolare di Vicenza, per poi cedere a un euro la parte buona a Intesa . Insieme i due istituti fanno l’ottavo gruppo italiano, tanto per capire l’impatto di una mancata operazione di sistema.

Chi scrive ha sempre criticato la nuova normativa europea sui salvataggi bancari, così come molti esperti l’hanno considerata addirittura anticostituzionale, nella parte in cui coinvolge creditori subordinati e correntisti, mettendo in pericolo la tutela stessa del risparmio prima davanti alla Carta Suprema e poi nei tribunali, ma certo questa conversione di Bruxelles, che dovrebbe autorizzare il salvataggio delle venete con soldi pubblici, fa pensare: i tecnici della Commissione hanno cambiato idea perché si sono finalmente resi conto dell’impossibilità di salvare banche senza l’aiuto di un privato interessato e dello Stato, oppure è in ballo uno scambio di più ampia portata con Roma, lasciata ancora sola sul fronte dell’emergenza migranti? Volendo lasciare per ora da una parte la seconda ipotesi, nel primo caso non ci sarebbe che rallegrarsene.

La confusione che si è creata negli ultimi due anni, da quando è diventata legge nazionale la direttiva comunitaria, ha rischiato spesso di appiccare un incendio nella patria del risparmio, l’Italia. Prima Banca Etruria e le altre tre piccole banche hanno fatto quasi da cavie a Bruxelles, tra un bail-in non applicato e un divieto europeo (a questo punto da giudicare assurdo) di utilizzare il Fondo di garanzia dei depositi. Sono seguiti i casi Monte dei Paschi , salvo solo grazie al Tesoro, il decreto salva banche di Natale 2016 da 20 miliardi di euro, che non faceva presagire nulla di buono, sospeso come era tra inchieste della magistratura, ristori dei risparmiatori truffati e termini astrusi per qualsiasi correntista come risoluzione, fallimento, ricapitalizzazione, fallimento controllato, bad bank, come se invece fosse buona una banca che tritura azioni e depositi. I depositi sono inevitabilmente fuggiti. I numeri, almeno quelli, sono rimasti sul tappeto. L’esborso per lo Stato ammonta a circa 5,5 miliardi di euro e complessivamente saranno mobilizzate risorse a favore dell’operazione fino ad un massimo di 17 miliardi, ha specificato il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, 12 dei quali serviranno a costituire la bad bank, disincagliare i crediti e fare pulizia. Dimenticato il Fondo Atlante. Spariti altri fondi eventuali compratori. Esiste solo Via XX Settembre con la super consulenza della Banca d’Italia. Se questa carota è meglio del bastone azzera tutto di Bruxelles lo diranno i clienti delle banche in questione.

Su tutto resta una domanda attualmente inevasa: Intesa incorporerà in un sol boccone Veneto Banca e Popolare di Vicenza o quest’ultime continueranno ad esercitare la licenza bancaria? È cruciale anche per capire chi risponderà delle cause in atto. Il resto è materia dei tecnici delle tre banche, dei futuri commissari delle venete e del management del vero regista di questa operazione, il ceo di Intesa, Carlo Messina, che prova a ricoprire il ruolo cruciale che ebbe Giovanni Bazoli nel salvataggio del Banco Ambrosiano, altra banca andata in dissolvenza e salvata grazie a un matrimonio sempre lombardoveneto, ma a parti rovesciate. Certo, visto come è andata a finire, non si può non dare ragione a un fine esperto della materia quale Angelo De Mattia, che nel giudicare queste giravolte europee sul fronte dei salvataggi bancari, usando il fioretto, ha parlato di incoerenza delle norme comunitarie. Un dato è certo, il bail in finisce nei cassetti. Chissà che non sia un buon viatico per l’archiviazione di un altro bastione dell’austerity comunitaria: il Fiscal compact.

(Articolo pubblicato su MF/Milano Finanza, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)

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