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Con la vittoria di misura nel referendum di domenica sul presidenzialismo, la Turchia di Erdogan si pone fatalmente in rotta di collisione con l’Europa. Ad urne appena chiuse, gli osservatori internazionali del Consiglio d’Europa e dell’OCSE già denunciavano il clima di intimidazione in cui si è svolta la campagna elettorale. Votare quando è in vigore lo stato di emergenza, quando molti giudici, militari, docenti universitari e altre decine di migliaia di funzionari pubblici sono stati o incarcerati o licenziati a seguito del fallito golpe del luglio scorso, quando l’opposizione non trova spazi nei media e i suoi comizi sono stati ostacolati dai sostenitori del sì, quando i leader del partito curdo sono in cella e circa cinquecentomila curdi sono sfollati a seguito della repressione da parte del governo, e dunque non in grado di partecipare al voto: questi ed altri fattori, secondo OCSE e Consiglio d’Europa, hanno provocato una palese distorsione del processo elettorale, pregiudicando quel dibattito pubblico, ampiamente coartato, che avrebbe dovuto precedere il voto di domenica. L’unica voce in capitolo, in questa competizione, è stata quella di Erdogan, ed essa ha tuonato senza resistenze, seguendo lo spartito populista e iper-nazionalista – comprensivo di insulti al vetriolo verso i “crociati” europei, stesso epiteto usato dai jihadisti dello Stato islamico – che caratterizza la retorica del presidente turco.

Il risultato è stato un voto polarizzato, con una netta spaccatura tra aree urbane dell’Ovest e del Sud, dove vivono i turchi più acculturati e cosmopoliti, e il feudo anatolico del partito di governo AKP, dove la religiosità è più spiccata e ha sempre favorito le pulsioni islamiste di Erdogan. Il nuovo raiss turco potrà essere stato sconfitto nel suo collegio elettorale di Istanbul e nella capitale Ankara ed in altre città chiave come Smirne. Ciò che gli importava era il consenso degli uomini e delle donne pii, quelle che grazie a lui hanno riottenuto il diritto di indossare il velo negli spazi pubblici che il padre e modernizzatore della patria Ataturk aveva loro negato in nome di una visione occidentale del futuro della Turchia.

Quel futuro, incarnato dall’adozione del codice civile svizzero e dell’alfabeto latino, sembra ormai giunto a conclusione, mentre si apre una ben poco promettente stagione all’insegna dell’autocrazia e del neo-ottomanesimo, simboli cogenti dell’abbandono della spinta verso l’Europa e di un nuovo radicamento nelle dinamiche politiche e culturali del Medio Oriente. Un passo indietro, insomma, che getta nello sconforto gli alleati Nato e tutti quei Paesi del Vecchio Continente che, nonostante gli evidenti segnali di tribolazione provenienti dalla realtà turca, si erano ostinati a mantenere aperta ad essa la porta di ingresso nell’Unione Europea. Il leader ALDE all’Europarlamento, Guy Verhfostad, ha già auspicato la chiusura definitiva dei negoziati con la Turchia. Idem il ministro degli Esteri austriaco, tradizionalmente scettico nei confronti della candidatura UE di un Paese a maggioranza musulmana. Più cauta la cancelliera Merkel, che col suo ministro degli esteri Sigmar Gabriel ha rilasciato una dichiarazione in cui esorta Erdogan a tenere in debito conto la spaccatura del Paese sulla riforma che ha tanto voluto.

Ma l’opinione degli europei conta poco o nulla per un leader che, dopo aver coltivato per anni il sogno di incoronarsi sultano di tutti i turchi, e di superare in gloria il fondatore Ataturk, ha ottenuto ciò che voleva. Già oggi, il presidente può tornare a iscriversi nel suo partito, l’AKP, e condizionare le candidature per le prossime elezioni di un parlamento che, in ogni caso, sarà una pallida ombra dell’attuale. Come specifica la riforma, Erdogan, una volta rieletto alla presidenza nella tornata elettorale del 2019, potrà governare da solo, essendo abolita la carica di primo ministro, e potrà farlo per decreto; potrà nominare e revocare a piacimento i ministri; spetterà a lui, direttamente o indirettamente, la nomina della maggioranza dei membri della Corte costituzionale e del Csm; i rettori delle principali università saranno cosa sua, e via dicendo.

La Turchia ha mollato gli ormeggi per imbarcarsi verso una destinazione sconosciuta, o forse prevedibile: una democratura in salsa islamica con un uomo solo al comando. Il raiss Erdogan.

islam, Jidideh califfato, barcellona

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