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Wolfsburg ringrazia Rüsselsheim. Il governatore della Bassa Sassonia, il socialdemocratico Stephan Weil, ringrazia quello dell’Assia, il cristianodemocratico Volker Bouffier. Ma è soprattutto la casa automobilistica Volkswagen che ringrazia Opel. Da quando all’inizio di questa settimana, si è appreso dell’intenzione di General Motors di vendere il marchio Opel (in suo possesso dal 1929) l’attenzione sulla guerra e le vendette in atto tra il grande vecchio Piëch e alcuni ex grandi boss di Volkswagen è un po’ scemata.

L’agitazione è tanta, primo perché Opel è una gloria nazionale e alla possibile perdita tutti i governi sembrano reagire allo stesso modo: impedire, a volte anche a costo di salvataggi onerosissimi la vendita. Secondo, perché, se realmente Opel venisse venduta alla francese PSA ci sarebbero parecchie sovrapposizioni di linee produttive e mansioni con Peugeot e Citroën. Terzo incombono le elezioni. Probabile dunque che i francesi comincino a tagliare prima in casa dell’ultimo arrivato. Anche in Germania si vota e l’eventuale cambio di proprietà non riguarderebbe solo l’Assia, cioè Rüsselsheim, la sede storica, ma anche la Turingia e il Rheinland-Pfalz, dove si trovano gli altri due grandi stabilimenti Opel. La Turingia è guidata da un governatore della Linke, la sinistra, mentre il Rheinland-Pfalz da una governatrice socialdemocratica. Unico dato consolatorio (se così si può dire) è che a essere toccati dal problema sono entrami i partiti della grande coalizione di Berlino oltre a uno della Linke (e sarà interessante vedere come il governatore Bodo Ramelow cercherà di difendere il sito produttivo di Eisenach).

Eppure, nota il quotidiano Die Welt, i governatori non sembrano più di tanto allarmati. Nemmeno quelli del Rheinland-Pfalz e della Turingia (quest’ultimo, ex Land dell’est), due regioni strutturalmente deboli e dove la chiusura degli impianti Opel comporterebbe seri problemi occupazionali.
Forse la calma si basa sulla convinzione che ancora una volta il governo federale correrà in soccorso. E in effetti della questione Opel hanno iniziato a occuparsi subito ben tre ministeri, quello del Lavoro, che fa capo alla socialdemocratica Andrea Nahles, quello delle Infrastrutture, guidato dal cristianosociale Alexander Dobrindt, e quello dell’Economia appena passato (dopo la dipartita del capo dell’Spd Sigmar Gabriel agli Esteri) alla socialdemocratica Brigitte Zypries. Inoltre si è saputo che Merkel vuole essere tenuta al corrente in tempo reale degli sviluppi.

Solo che la storia, anche quella industriale tedesca, dovrebbe aver insegnato che salvataggi disperati, più simili a tamponamenti che a veri e ben preparati rilanci, finiscono spesso solo per pesare sulle tasche del contribuente. Questo si legge in un commento, sempre sul Welt. E Olaf Gersemann, l’autore dell’articolo, per confutare la sua tesi passa in rassegna alcuni esempi di salvataggi che hanno semplicemente posticipato la fine di imprese decotte e non più al passo con i tempi. Il primo caso risale a poco più di 50 anni fa. Allora c’erano appese a un filo le sorti della casa automobilistica Borgward. Il Senato di Brema aveva prima sottoscritto garanzie per diversi milioni di marchi, poi aveva addirittura rilevato l’industria. Ma nulla da fare “la fine di Borgward, segnò la fine del miracolo economico della Germania occidentale” osserva Gersemann.

Stessa sorte è toccata nel 1999 all’industria di costruzioni Philipp Holzmann. Fondata nel 1849 è stata per decenni il numero uno sul mercato tedesco e tra i grandi global player internazionali. Ma una serie di scelte sbagliate che ha portato a un indebitamento stratosferico, ha costretto la Philipp Holzmann nel 1999 a dichiarare insolvenza. A rischiare il posto erano decine di migliaia di dipendenti, motivo per cui l’allora cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder aveva optato per il salvataggio: le banche avevano concesso un prestito di 1 miliardo di marchi, lo Stato garantiva per 250 milioni di marchi. Un consorzio di 19 banche aveva aperto una linea di credito per il risanamento stimato in 4,5 miliardi di marchi. Tra il 1999 e il 2002 il numero di dipendenti era sceso da 28.300 a 10.600. Tutto inutile, nel marzo del 2002, la Holzmann aveva chiuso definitivamente i battenti.

Anche la discesa in campo del governo Merkel nel gennaio 2008 per convincere Nokia a non chiudere lo stabilimento di Bochum non è servita. I cellulari del produttore finlandese ormai continuavano a perdere quote di mercato. Da qui la scelta di trasferire la produzione al sito già esistente in Romania.
E sempre nel 2008 c’è stato il primo “round” Opel. General Motors già allora voleva vendere. Tra gli interessati allora, c’era anche FIAT, ma il governo aveva lasciato chiaramente intendere che avrebbe preferito gli austrocanadesi di Magna in cordata con la banca russa Sberbank (pur sapendo che Magna faceva solo da paravento ai russi). Ma dopo un lungo tira e molla General Motors decide di tenersi Opel.

“Politici che cercano di opporsi al mercato facendo credere di ristabilire il primato della politica guadagnano sicuramente punti agli occhi del pubblico” osserva Gesemann. “Ma un salvataggio vero e duraturo riesce solo in pochissimi casi. (…) Non c’è garanzia statale, infatti, che possa azzerare anni di mala gestione. Inoltre, se i politici intervengono quando e come gli pare, anziché essere semplici arbitri, ciò mina la fiducia nei principi basilari dell’economia sociale del mercato”. Infine conlcude Gesemann, riferendosi indirettamente anche allo scalpore che le intenzioni protezionistiche di Donald Trump hanno suscitato in Germania: “Non è credibile un governo che si oppone ad acquisizioni in casa propria e poi va in giro per il mondo, perorando la causa del libero mercato”.

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