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Questa settimana ha fatto abbastanza scalpore l’annuncio (arrivato quasi a sorpresa) del raggiungimento di un accordo commerciale tra Stati Uniti e Regno Unito. In realtà, Londra era già riuscita a passare sostanzialmente indenne (specie se paragonata ad altri partner commerciali, come l’Unione europea) sotto la tagliola dei dazi annunciati durante il Liberation Day, anche se si era trattato semplicemente del risultato della formula matematica dovuto al minore surplus commerciale di Londra nei confronti di Washington.

Per cominciare, si può dunque affermare che le trattative degli Stati Uniti con il Regno Unito partivano quantomeno da una posizione più semplice rispetto a quella con l’Unione europea, che è stata invece bersagliata con un dazio trasversale del 20% su tutti i beni.

Tuttavia, è importante non enfatizzare eccessivamente questo accordo, semplicemente perché non è un vero e proprio trade deal. Ovvero, non si tratta di un accordo di libero scambio tout court, nel quale viene affrontato il nodo delle barriere tariffarie e non tariffarie per ogni categoria merceologica, ma semplicemente è una decisione unilaterale da parte degli Stati Uniti che concede al Regno Unito un trattamento preferenziale per alcuni tipi di prodotti. Nel caso specifico, acciaio, alluminio, automobili e carne saranno oggetto di un dazio del 10%, in parallelo a quote di importazione che faranno scattare tariffe più elevate se queste quote dovessero essere superate. Per esempio, se Londra dovesse esportare più di 100.000 veicoli all’anno verso gli Stati Uniti, al di sopra di questo limite il dazio applicato salirebbe automaticamente al 27,5%.

Insomma, si capisce che si tratta di una soluzione ancora parziale, un primo passo verso negoziati più ambiziosi che offre però una significativa boccata d’ossigeno ad alcuni settori produttivi britannici e che sottolinea come qualcosa della special relationship transatlantica tra Londra e Washington sia rimasta nonostante i toni aggressivi dell’amministrazione Trump. Ma allora, come possiamo interpretare questa concessione della Casa Bianca verso Downing Street alla luce dei negoziati che riguardano noi italiani più direttamente, ovvero quelli con l’Unione europea? Non dimentichiamoci che a luglio, se non sarà trovato un accordo, scatteranno tariffe al 20%.

L’apertura di Washington potrebbe essere considerata come una dimostrazione che, dopotutto, con Donald Trump e i suoi collaboratori in capo alla politica commerciale (da Howard Lutnick, segretario al Commercio, al consigliere Peter Navarro) si può parlare e cercare un punto di accordo. Del resto, il presidente nei giorni scorsi ha cominciato a fare parziali marce indietro rispetto alla pioggia di dazi inflitti a destra e a manca nelle settimane precedenti, probabilmente consapevole dei venti per nulla promettenti che stanno soffiando in direzione contraria all’economia americana. Venerdì, per esempio, ha affermato che sta valutando di ridurre i dazi alla Cina dall’attuale 145% un più modesto 80%: un livello comunque elevatissimo ma che rivela una volontà di scendere a compromessi. L’Unione europea, nel frattempo, ha aperto una consultazione pubblica di un mese su una lista di beni statunitensi che saranno oggetto di contro-dazi se non si troverà un accordo.

Potremmo dunque dire che si apre adesso una fase negoziale nella quale si può sperare di trovare un punto di incontro, anche perché forse Trump sta cominciando a capire che tirare troppo la corda danneggerebbe soprattutto l’economia statunitense, come rivelano i dati sulla performance economica del primo trimestre di quest’anno. Le prossime settimane saranno decisive: occorre intavolare un negoziato pragmatico, libero da considerazioni di carattere ideologico. Trump, in nome degli affari che vuole concludere, è disposto a parlare con tutti (il britannico Sir Keir Starmer, laburista, non è certo vicino al sovranismo di stampo Maga). Si potrebbero aprire infatti spazi importanti che potrebbero portare ad un nuovo rafforzamento della comunità transatlantica in chiave anticinese. L’Unione europea, anche con la guida dell’Italia e del suo governo assai cauto e prudente in questa fase, dovrebbe sfruttare questa finestra di opportunità e condurre le trattative sulla base di questi principi.

Del resto, sembra che con l’elezione di Leone XIV sia cambiato il sentimento generale e si sia passati dal confronto aspro al dialogo di agostiniana ispirazione, nella considerazione delle rispettive posizioni come auspicato dal nuovo papa in tutt’altri settori. Speriamo sia un contagio benefico e che contribuisca a sanare le ferite di questo mondo martoriato, dall’Ucraina a Gaza, dall’Africa all’Asia.

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