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Le “minacce ibride” rappresentano una nuova forma di sfida alla sicurezza nazionale: mischiano tattiche convenzionali e asimmetriche, impiegano attori statali e proxy, sfruttano vulnerabilità digitali e dipendenze commerciali pur restando al di sotto della soglia di guerra aperta. Un recente report dell’Australian Strategic Policy Institute analizza 74 “incidenti” contro l’Australia fra marzo 2016 e febbraio 2025, offrendo una fotografia dettagliata delle modalità d’azione e delle contromisure messe in campo da Canberra.

Le tipologie di attacchi

La tipologia più frequente è quella dei cyberattacchi (35%): guidati soprattutto da gruppi legati al Partito comunista cinese (APT27, APT40, Naikon) e da attori iraniani (Fox Kitten, APT42). Gli obiettivi includono agenzie governative, infrastrutture critiche e grandi aziende strategiche. Segue l’interferenza straniera (25%): comprendente operazioni volte a influenzare elezioni e referendum (per esempio le attività documentate durante il voto sulla Voice to Parliament delle comunità indigene) o campagne di intimidazione contro oppositori politici e giornalisti della diaspora. C’è poi l’information warfare (20%): reti come Spamouflage, che diffondono narrative fabbricate tramite account falsi sui social, hanno preso di mira settori chiave (miniere di terre rare) e figure pubbliche, sfruttando metodologie di disinformazione “militarizzate”. Infine, la coercizione economica (20%), con le tariffe punitive su orzo e vino all’embargo sulle aragoste accompagnate da boicottaggi e rallentamenti doganali mirati a ottenere concessioni politiche, e le pressioni militari e paramilitari (15%) che sono aumentate nel 2025 con sorvoli di caccia J-16 cinesi su P-8 australiani e incursioni navali nell’area economica esclusiva australiana.

Il dato più rilevante è la prevalenza delle azioni legate alla Cina (70%), seguita da Russia (11%) e Iran (10%), ma compare anche l’attività di gruppi non statali intenti a promuovere estremismi violenti.

Le risposte di Canberra

Le risposte del governo australiano hanno toccato quattro settori. Primo, diplomatico: comunicati ufficiali, note di protesta e advisories congiunte con partner come Stati Uniti e Regno Unito. Second, normativo: inasprimento delle leggi sugli investimenti esteri, introduzione del Foreign Influence Transparency Scheme e revisione dell’Espionage and Foreign Interference Act del 2018. Terzo, tecnico: potenziamento dei sistemi di threat detection, avvio del programma REDSPICE per rafforzare capacità cyber offensive e difensive, implementazione di protocolli di cifratura avanzata nelle reti governative e finanziarie. Quarto, consapevolezza pubblica: campagne informative, alert dell’Australian Signals Directorate e condivisione di intelligence con Stati e territori.

Le sfide

Il think tank segnala un’eccessiva concentrazione di risorse sulla risposta ai rischi militari e paramilitari (tassi di reazione dell’80% in diplomazia e 100% in comunicazione pubblica), mentre le tattiche di “bassa intensità” – disinformazione, influenze economiche e interferenze politiche – spesso ricevono risposte temporanee e poco strutturate. Per una strategia bilanciata, è necessario, secondo l’Australian Policy Institute: mantenere contromisure immediate (intelligence-led) senza trascurare l’effetto deterrente delle sanzioni e della trasparenza (policy-led); rafforzare la capacità di attribuire responsabilità con chiarezza e coerenza (finora solo l’Iran è stato apertamente incriminato); integrare settore pubblico, industria e alleati internazionali in un approccio “whole-of-nation” per evitare che le minacce ibride diventino normalizzate.

Australia, 74 attacchi ibridi in dieci anni. Report Aspi

L’Australian Strategic Policy Institute ha monitorato 74 episodi di minacce ibride in un decennio, dominati da cyberattacchi cinesi, campagne di disinformazione e pressioni economiche. Canberra ha potenziato difesa informatica, normative e diplomazia, ma resta urgente un approccio strategico bilanciato, che coniughi deterrenza visibile e capacità reattive

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