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Il capitano Ibrahim Traoré, in uniforme mimetica operativa, ha assistito il 9 maggio alla parata militare sulla Piazza Rossa, accanto a Vladimir Putin. Nessun abito cerimoniale, nessuna medaglia scintillante. Solo la divisa da campo, quella che indossa tra i suoi uomini, nei villaggi del Sahel e nelle caserme di Ouagadougou. È così che ha scelto di presentarsi al mondo: non come un presidente in posa, ma come un comandante in servizio permanente. La sua immagine, trasmessa in mondovisione, è un manifesto politico: l’Africa che non chiede permesso, che parla di liberazione, che si veste da battaglia anche quando è ospite d’onore.

Traoré ha 36 anni ed è al potere dal 2022, quando un colpo di Stato lo ha portato a guidare il Burkina Faso. È ufficialmente capitano, ma si muove con la postura del rivoluzionario: giovane, ideologico, spregiudicato. Ha voltato le spalle alla Francia, rifiutato le ricette del Fondo Monetario Internazionale e si propone come il volto nuovo di un panafricanismo senza complessi, sostenuto da nuove alleanze strategiche, a cominciare da quella con la Russia.

Il legame con Mosca non è solo ideologico. È concreto. In meno di due anni, Traoré ha chiuso ogni collaborazione con le forze francesi, espulso i militari europei, e aperto le porte agli “istruttori” russi. Il gruppo Wagner, ora rientrato sotto il controllo diretto dello Stato russo, garantisce sicurezza, logistica e armamenti. In cambio, riceve accesso a risorse strategiche e protezione politica. È il nuovo patto saheliano: stabilità in cambio di sovranità riconfigurata.

Traoré però non si limita alla geopolitica. In patria ha lanciato una campagna simbolica e popolare: ha tagliato gli stipendi ai dirigenti pubblici e ai membri del governo, destinando quei fondi a esercito e urgenze sociali. Un gesto ad alta resa mediatica, che rafforza la sua narrazione di leader austero, vicino al popolo, e pronto a colpire i privilegi per finanziare la “guerra di liberazione” contro il terrorismo e la povertà.

E la povertà, in Burkina Faso, non è solo una questione statistica: è una realtà diffusa e strutturale. Il Paese è tra i più poveri del mondo: oltre il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e il reddito medio annuo non supera i 900 dollari. L’economia è dominata dal settore agricolo, fortemente esposto alla siccità e al cambiamento climatico. Le infrastrutture sono fragili, l’alfabetizzazione resta bassa e il debito pubblico è in crescita. Ma dietro questo scenario si nasconde un paradosso africano che si ripete: il Burkina Faso è anche un Paese ricco, potenzialmente strategico.

A rendere conteso questo angolo del Sahel sono le sue immense risorse minerarie, a cominciare dall’oro. Il Burkina è tra i maggiori produttori africani, con circa 70 tonnellate annue, estratte in gran parte da aziende straniere — canadesi, australiane, sudafricane — in condizioni spesso opache. Accanto all’oro ci sono giacimenti di manganese, zinco, rame, fosfati, e soprattutto risorse energetiche non ancora pienamente esplorate. È questo il tesoro che Traoré vuole riportare sotto controllo nazionale, ridiscutendo concessioni, rinegoziando royalties e cercando nuovi interlocutori non occidentali, a cominciare da Mosca e Pechino.

Ouagadougou lo acclama. Nei mercati, nei quartieri periferici, nelle scuole, Traoré viene visto come un liberatore. La sua figura ispira altri governi militari dell’area — Mali, Niger, Guinea — che hanno seguito percorsi simili e oggi formano un’alleanza informale anti-occidentale. Ma dietro il consenso, restano ombre pesanti: secondo le Nazioni Unite, la violenza jihadista non si è fermata, la situazione umanitaria peggiora, la libertà di stampa è sotto pressione e le epurazioni interne si moltiplicano.

Eppure, nella simbologia della parata del 9 maggio, il volto severo di Traoré dice molto più di un discorso. La Russia lo esibisce come trofeo della sua penetrazione africana, ma è tutta l’Europa a dover riflettere. Il Burkina Faso non è un caso isolato, ma l’avanguardia di un continente in ebollizione, che chiede rispetto, ascolto, partnership vere. Non aiuti calati dall’alto, ma investimenti, accordi alla pari, e soprattutto dignità.

L’Africa sta cambiando pelle. E chi vuole continuare a dialogarci, dovrà parlare una nuova lingua. Perché sulla Piazza Rossa non ha sfilato solo un capitano: ha sfilato un intero continente deciso a rimettere le carte sul tavolo.

(Foto: X, CapitaineIb226)

BURKINA FASO: ECONOMIA, RISORSE E PARADOSSI

PIL pro capite: circa 900 dollari annui (Banca Mondiale, 2023)

Popolazione: circa 23 milioni di abitanti

Povertà: oltre il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà

Settori economici principali

  • Agricoltura (cotone, mais, miglio, bestiame)
  • Estrazione mineraria (soprattutto oro)

Oro: 1° esportazione del Paese

  • Tra i primi 5 produttori africani (oltre 70 tonnellate annue)
  • La maggior parte delle concessioni è in mano a compagnie straniere

Altre risorse naturali

  • Manganese, zinco, rame, fosfati
  • Potenziale energetico ancora poco sviluppato

Instabilità e sicurezza

  • Presenza diffusa di gruppi jihadisti nelle regioni settentrionali e orientali
  • Circa 2 milioni di sfollati interni (UNHCR, 2024)
  • Attacchi in crescita dopo l’uscita dalle missioni internazionali

Visione del governo Traoré

  • Rinegoziazione delle concessioni minerarie
  • Tagli agli stipendi pubblici per finanziare esercito e servizi essenziali
  • Ricerca di alleanze strategiche fuori dall’Occidente (Russia, Cina)

Burkina Faso, Traoré e la marcia africana verso Mosca

La Russia esibisce il leader burkinabé sulla Piazza Rossa come trofeo della sua penetrazione africana, ma è tutta l’Europa a dover riflettere. Il continente sta cambiando pelle. E chi vuole continuare a dialogarci, dovrà parlare una nuova lingua

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