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Si possono considerare concluse le celebrazioni del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci ricordandone l’effetto politico. Che fu l’elezione al Quirinale di Oscar Luigi Scalfaro, insediatosi esattamente 25 anni fa, il 28 maggio 1992, alla Presidenza della Repubblica giurando davanti al Parlamento e pronunciando il discorso d’inizio del suo settennato.

Era un giovedì mattina. Tre giorni prima, dopo la quindicesima votazione a vuoto nell’aula di Montecitorio, e a Camere congiunte, per la successione a Francesco Cossiga al vertice dello Stato, il magistrato più famoso d’Italia, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, magistrata pure lei, e tre dei sette agenti della scorta – Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro – erano letteralmente saltati in aria, assassinati dalla mafia, mentre cercavano di raggiungere Palermo nelle loro auto blindate dall’aeroporto di Punta Raisi.

Falcone aveva pagato così con la vita la colpa di avere messo in ginocchio i vertici di Cosa Nostra col maxiprocesso prodigo di ergastoli e altre condanne confermate dalla Cassazione proprio all’inizio del 1992, quando lo stesso Falcone per sottrarsi ai veleni dei colleghi nel tribunale di Palermo e alle minacce della mafia era stato aiutato da Cossiga a trasferirsi a Roma assumendo la direzione degli affari penali del Ministero della Giustizia: un incarico preparato dal guardasigilli socialista Giuliano Vassalli prima di essere nominato giudice costituzionale e conferito dal suo successore, nonché vice presidente del Consiglio Claudio Martelli, anche lui del Psi. Un incarico, tuttavia, che aveva avvelenato ulteriormente i rapporti di Falcone con i colleghi e non aveva per niente scoraggiato la mafia dal consumare la sua vendetta con un attentato, peraltro, voluto e organizzato in terra siciliana, dopo un’ipotesi scartata di assassinare il giudice nella Capitale.

Il contraccolpo politico della strage di Capaci fu lo sblocco della corsa al Quirinale, arenatasi, per uno scontro all’interno della Dc e per la dissidenza della sinistra socialista, con la bocciatura del candidato della maggioranza uscente di governo. Che era il segretario democristiano Arnaldo Forlani.

Di fronte all’attacco mafioso si decise da parte dei maggiori partiti di puntare su una rapida soluzione “istituzionale”, scegliendo fra i presidenti della Camera Oscar Luigi Scalfaro e del Senato Giovanni Spadolini, peraltro capo supplente dello Stato dopo le dimissioni di Cossiga, presentate verso la fine di aprile, con alcune settimane di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria del mandato. Con quel gesto Cossiga aveva intesto facilitare, almeno a parole, un accordo generale fra i partiti della maggioranza comprensivo di governo e Quirinale. Ma c’era sotto anche dell’altro, forse la speranza di una ricandidatura del presidente uscente, una volta fallite tutte le altre.

Per quanto Spadolini sembrasse favorito dalla supplenza quirinalizia e da uno schieramento mediatico esteso da Indro Montanelli ad Eugenio Scalfari, per volontà soprattutto del Pds-ex Pci la scelta cadde su Scalfaro. Che aveva il vantaggio politico, agli occhi di quel partito, di liberare la presidenza della Camera per Giorgio Napolitano.

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Assai curiosamente nel discorso di insediamento Scalfaro dedicò all’evento che pure lo aveva imprevedibilmente portato al Quirinale solo un inciso, parlando della “criminalità aggressiva e sanguinaria”, che “ci angoscia”, nonostante “l’impegno intenso dello Stato”, da “riconoscere per giustizia”. Un impegno naturalmente da accentuare con “due cose essenziali: la stretta intesa, pur nelle diverse competenze, fra Ministero dell’Interno e magistratura e la collaborazione internazionale”, perché “i delitti più gravi è assai difficile che non abbiano radici internazionali”, appunto. Il che fece credere che Scalfaro avesse avvertito anche qualche mano straniera nella pur non menzionata strage di Capaci.

Più spazio fu dato dal nuovo presidente della Repubblica alla necessità di riformare la Costituzione: cosa che, nonostante il ricorso da lui raccomandato ad un’apposita commissione bicamerale, non fu possibile realizzare durante il suo mandato. E quando fu possibile, durante il settennato del successore Carlo Azeglio Ciampi, proprio Scalfaro da presidente ormai emerito della Repubblica guidò e vinse la campagna referendaria del no alla riforma cosiddetta federalista approvata in Parlamento della maggioranza di centrodestra, su iniziativa del secondo governo di Silvio Berlusconi.

Ma soprattutto Scalfaro si soffermò nel discorso di insediamento sulla “questione morale” esplosa con Tangentopoli e con le inchieste giudiziarie di Milano, chiamate Mani pulite e poi imitate da altre Procure. Inchieste destinate a travolgere la cosiddetta Prima Repubblica e a cambiare profondamente gli equilibri politici del Paese, in un clima di sbandamento e di vuoto in cui crebbe la Lega di Umberto Bossi e soprattutto maturò la decisione di Berlusconi di “scendere in politica”. Così egli occupò con la sua Forza Italia lo spazio dei vecchi partiti di governo travolti dalla tempesta giudiziaria, come la Dc, il Psi, il Psdi, il Pli e il Pri: l’area del cosiddetto pentapartito d’impronta craxiana.

Mentre erano già cominciati ad arrivare alla Camera i primi fascicoli giudiziari da Milano per le autorizzazioni a procedere ancora imposte dal vecchio articolo 68 della Costituzione sulle immunità parlamentari, modificato a larga maggioranza e a tamburo battente l’anno dopo, con la legge del 29 ottobre 1993, Scalfaro da magistrato in pensione si rivolse ai suoi ex colleghi di toga perché facessero per intero il loro dovere. E respinse l’abitudine di troppi di liquidare “gli appelli morali” come “moralismo”.

“Occorre – disse il presidente della Repubblica – energia, serenità e perseveranza della magistratura”, in un passaggio non interrotto, in verità, dagli applausi riservati ad altre parti del discorso, come se i parlamentari non fossero convinti della possibilità di conciliare davvero le tre qualità reclamate dal capo dello Stato per il clima un po’ da caccia alle streghe che stava diffondendosi, e che ancora di più era destinato a svilupparsi con un uso, per esempio, smodato degli avvisi di garanzia e delle manette, spesso scattate ai polsi di chi poi non sarebbe stato neppure rinviato a giudizio. Fu il caso, fra gli altri, dell’ex ministro della Giustizia Clelio Darida, collega di partito di Scalfaro. Ne ho qui ricordato di recente l’incredibile vicenda giudiziaria in occasione della morte.

Di “energia e perseveranza” si dimostrò sicuramente capace la magistratura nella gestione o lotta a Tangentopoli. Di “serenità”, francamente, molto meno, o per niente: temo, nella sostanziale indifferenza di Scalfaro, a dispetto del monito rivolto ai suoi ex colleghi di toga.

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