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Per le banche popolari il 2017 non poteva iniziare peggio. Gli istituti sono ancora appesi a una riforma smontata in parte dal Consiglio di Stato, che ne ha sospeso alcuni effetti. Il rischio concreto è che un’eventuale conferma dei rilievi posti dalla giustizia amministrativa alla riforma imposta a mezzo decreto dal Governo Renzi possa tradursi in un autentico salasso per le banche coinvolte, una decina in tutto (qui l’approfondimento di Formiche.net sui possibili costi per le banche derivanti dallo stop alla riforma). La domanda che ci si pone ora è dunque, cosa succederà adesso? Ma soprattutto, perché il governo non è intervenuto con una norma in grado di disinnescare la bomba in occasione del Milleproroghe?

12 GENNAIO, CHE SUCCEDE?

Tutto ruota intorno a una data, il 12 gennaio. Per quel giorno è infatti prevista una nuova camera di consiglio a Palazzo Spada, dopo quella che il 2 dicembre ha sospeso, in base ai ricorsi di alcuni azionisti non aderenti alla trasformazione in spa, gli effetti della circolare attuativa della riforma emanata da Bankitalia, affermando un principio che ha messo in crisi l’intero impianto di riassetto delle popolari, oltre a creare non pochi potenziali problemi al sistema delle popolari. E cioè che il rimborso per i soci delle banche popolari che esercitano diritto di recesso perché in disaccordo con la trasformazione in spa, prevista dal decreto di riforma del 2015, può essere differito, ma non certo negato. Tra pochi giorni, dunque, i giudici decideranno se prorogare la sospensione degli effetti di tale circolare, oppure dichiarare terminato il periodo di stop, rendendo così nuovamente operative le disposizioni attuative e dunque la possibilità per le banche di soddisfare solo in parte le richieste di recesso. C’è di più. Perché nello stesso giorno, salvo repentini cambi di programmi, il Consiglio di Stato deciderà anche se prolungare o meno la sospensione della trasformazione in spa delle ultime popolari rimaste fuori, Sondrio e Bari, le cui rispettive assemblee avrebbero dovuto varare il cambio di statuto entro il 27 dicembre, salvo poi rimandare tutto a gennaio, complice un mix di interventi della magistratura civile e dello stesso Cds.

GLI SCENARI 

Qualora Palazzo Spada decida di porre fine alla sospensiva della circolare Bankitalia, gli istituti potrebbero tirare un sospiro di sollievo, seppur temporaneo. Continuando cioè a rimborsare quelle richieste di recesso il cui ammontare non intacca i coefficienti patrimoniali fissati dalla vigilanza. Ma, attenzione, fino alla pronuncia della Corte costituzionale. Alla quale, è bene ricordarlo, spetta l’ultima parola sulla legittimità o meno della riforma, che però non arriverà prima di qualche mese. Se la Consulta dovesse avallare la decisione del Cds, giudicando nel complesso conforme alla Costituzione la riforma, la vicenda finirebbe lì. Ma se al contrario la Consulta decidesse di prendere posizione contro la riforma, giudicandola incostituzionale, si aprirebbe una voragine per gli istituti, costretti a rimborsare in toto le richieste degli azionisti che hanno deciso di uscire la capitale. A favore degli istituti gioca la precedente decisione con cui la Consulta ha bocciato a dicembre il ricorso contro la riforma intentato dalla Regione Lombardia, che tra altre cose lamentava l’uso del decreto legge. Ma è tutto da vedere. Altro discorso è la trasformazione in spa. Appare difficile un proseguo della sospensiva, perché creerebbe ancora più incertezza. Dunque è molto probabile che il 12 gennaio i giudici optino per un nuovo via libera al cambio di statuto, riattivando il countdown per la trasformazione. Ma anche qui la parola fine la scriverà la Corte costituzionale. E allora, se il Cds dovesse al contempo tenere congelata la circolare di Bankitalia e la Consulta bocciare definitivamente la riforma sarebbero dolori per le popolari, con gli azionisti a batter cassa a banche prive della tutela in materia di recesso fornita dalle disposizioni attuative.

PERCHE’ IL GOVERNO E’ STATO (PER ORA) ALLA FINESTRA

Ed ecco il secondo punto, ovvero l’improvviso dietrofront di Palazzo Chigi sulla concessione di altro tempo a Sondrio e Bari per trasformarsi in spa, in attesa che la consulta facesse chiarezza. Nei giorni scorsi era infatti trapelata l’ipotesi di un provvedimento in extremis da inserire nel Milleproroghe, per traghettare le due popolari fino alla decisione finale della Corte sulla riforma. Insomma, dare “istruzioni” sul come muoversi. E invece non se ne è fatto nulla. Perché? Le voci che in queste ore si rincorrono vogliono il premier Paolo Gentiloni, intenzionato a non “sconfessare” la riforma del suo predecessore (e leader del partito di Gentiloni) Matteo Renzi. In ambienti politici si racconta di come, durante l’ultimo Consiglio dei ministri, quello del 29 dicembre chiamato ad approvare il Milleproroghe per intendersi, i membri del governo più renziani abbiano spinto per non intaccare ulteriormente la riforma, facendo cadere l’ipotesi di una proroga, con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan che da parte sua si sarebbe limitato ad un’alzata di spalle.

ECCO COSA (E QUANTO) RISCHIANO LE POPOLARI

Su tutto però, vale la posta in gioco, che è piuttosto alta.  Per fare un esempio, lo scorso febbraio, Ubi banca ha fatto sapere di voler pagare il 5% delle richieste di recesso pervenute. In pratica, 13 milioni su 250 milioni. Il consiglio di sorveglianza dell’istituto si è infatti avvalso proprio della facoltà di limitare il rimborso delle azioni per non far scendere il coefficiente di capitale primario. Secondo alcuni calcoli riportati dal Fatto Quotidiano poi Pop Vicenza ha negato a tutti il diritto di recesso (richieste per soli 1,7 milioni) così come Veneto Banca (14 milioni). Per Popolare Milano e Banco Popolare, ormai fuse, il conto è di 207 milioni. Conto ben più salato secondo Giovanni Bianchini, presidente di Lisippo, un’importante associazione di azionisti Bpm, per il quale guardando al solo lato Banca popolare di Milano, “il mancato pagamento del diritto di recesso esercitato dai soci potrebbe tradursi in un esborso di 400 milioni, senza considerare le richieste di risarcimento danni di chi ha deciso di vendere direttamente le azioni sul mercato a 0,28-0,30 euro, contro i 0,49 del prezzo di recesso”. Infine il Creval, che ha richieste per 8,5 milioni. 

BARI RISCHIA GROSSO

Chi rischia davvero grosso è però la Popolare di Bari, (69 mila azionisti) il cui tribunale civile ne ha stoppato la trasformazione in spa, ha infatti fissato il valore di recesso a 7,5 euro per azione, attribuendosi una valutazione di 1,2 miliardi di euro. Il prezzo, decisamente generoso, è stato fissato sull’onda della convinzione di dover garantire solo una parte dei rimborsi, come fatto dalle altre popolari. Una proroga dei termini via Milleproroghe, avrebbe consentito alla banca pugliese di evitare il rimborso. Ma la proroga non è arrivata e 7,5 euro ad azione è un prezzo abbastanza appetitoso per far scattare richieste di massa con evidenti danni al patrimonio dell’istituto. L’importo era comunque frutto di una svalutazione. Già ad aprile scorso infatti il prezzo per azione era passato da 9,15 euro agli attuali 7,50 euro, subendo un calo del 21%.

Ubi, Popolare di Bari, Popolare di Sondrio. Ecco perché il governo non è intervenuto

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