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“I Cie che dovranno ospitare le persone irregolari da respingere non avranno nulla a che fare con quelli del passato. Punto. Non c’entrano nulla perché hanno un’altra finalità, non c’entrano con l’accoglienza ma con coloro che devono essere espulsi”. Chissà se questa dichiarazione del neo ministro dell’Interno Marco Minniti rilasciata stamattina alla conferenza stampa con il premier Paolo Gentiloni riuscirà a rasserenare gli animi della sinistra. Già, perché l’annunciata riapertura da parte del Governo dei tanto odiati Centri di identificazione ed espulsione ha scatenato un mezzo putiferio a sinistra, come evidenziato anche da ItaliaOggi.

DA DOVE VENGONO I CIE

Eppure i Cie altro non sono che un’idea della sinistra. Bisogna infatti tornare al 1998 e alla legge Turco-Napolitano (dai nomi degli allora ministri alle Politiche sociali e all’Interno Livia Turco e Giorgio Napolitano, espressione del Pds) per scovarne la primogeniture. Erano i tempi del primo governo di Romano Prodi e all’epoca c’era da fronteggiare l’immigrazione albanese già consolidata da alcuni anni e quella africana che aumentava la pressione, soprattutto dal centro del continente nero. Così ci si inventò i Centri di permanenza temporanea (che poi cambiarono denominazione) per tutti gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile”.

LO STATO DELL’ARTE

Al momento sono soltanto 4 i Centri attivi nel nostro Paese: Brindisi, Caltanissetta, Roma e Torino. Tutti gestiti da associazioni culturali o cooperative sociali, per un totale di 288 presenze (43 donne) e una capienza massima di 395 posti. Numeri risicatissimi a fronte dell’emergenza profughi, basti considerare che sono stati 30mila i decreti di espulsione firmati in Italia nel solo 2016. Se si considerano anche i Cie chiusi negli ultimi anni (Bari, Bologna, Crotone, Gorizia e Milano) la capienza complessiva sale a 1393. Quindi ancora lontano dai numeri dell’emergenza. Ma, ha spiegato stamattina Minniti, i nuovi Cie che il Governo intende ad aprire (circa uno per ogni regione) saranno “piccoli”, con una capienza di circa 80-100 posti l’uno, strutture in cui “la persona viene trattenuta in attesa della procedura di rimpatrio”.

Tuttavia, a stroncare il funzionamento di questi Centri ci ha pensato il dossier della Commissione diritti umani del Senato presieduta dal senatore dem Luigi Manconi (collega di partito del ministro Minniti), di cui ha parlato Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera. “Il bilancio dell’approccio hotpost non può che considerarsi deficitario ed evidenziare un sostanziale fallimento del piano europeo: a fronte del raggiungimento di un tasso di identificazioni di oltre il 94 per cento, non sono corrisposti risultati positivi in termini di persone ricollocate e persone rimpatriate” si legge nel documento, dove si evidenzia che “alla fine di dicembre 2016, sono stati ricollocati dall’Italia in altri Stati membri solo 2.350 persone sul totale di 40.000 previste dal piano europeo”.

CRITICHE AI CIE DAL PD

Se è vero, come scrive oggi il Foglio, che “con Amri (il terrorista di Berlino ucciso dalla Polizia a Sesto San Giovanni, ndr), è caduto il tabù tanto caro alla sinistra tutta che dal mare non sarebbero mai arrivati terroristi”, va detto però che sempre a sinistra il giro di vite sul tema sicurezza che vuole imporre il neo ministro Minniti sta suscitando aspre critiche proprio all’interno del Pd. Passi per la sollevazione popolare di ciò che sta a sinistra dei dem (da Sinistra Italiana a Possibile), passi per le sparate a 5 Stelle (Beppe Grillo ha accostato i Cie a Mafia Capitale tanto per rimestare nel torbido), sono diversi gli esponenti di primo piano del Partito democratico ad aver subito detto no a questa ipotesi. Ci sono sindaci importanti come Beppe Sala che a Milano non vuole riaprire il Cie di via Corelli e chiede approfondimenti al Viminale o Virginio Merola a Bologna che si era già espresso contro la struttura di via Mattei. Ci sono governatori come Enrico Rossi della Toscana (pure candidato alla segreteria dem) secondo il quale in quelle strutture non si rispettano i diritti umani, o come Debora Serracchiani del Friuli Venezia-Giulia (e vice di Matteo Renzi alla guida nazionale del Pd) convinta che “sia necessario aumentare le espulsioni” e che al contempo “i Cie non siano l’unica soluzione, anzi nella forma che abbiamo conosciuto non hanno funzionato per niente, motivo per cui ne abbiamo convintamente chiesto la chiusura”. La stessa ex ministra all’Immigrazione e ora eurodeputata Cecile Kyenge ha parlato di “fumo negli occhi, un utile e triste ritorno”. “Non credo possa funzionare oggi ciò che non ha mai funzionato” è la sua lapidaria sentenza sulla riapertura dei Cie. Per non parlare dell’offensiva lanciata da Bologna dalla parlamentare Sandra Zampa, prodiana di ferro (già portavoce del Professore) nonché vicepresidente del Pd, che tanto si è battuta per la chiusura del Cie di Bologna e ora vuole scongiurare la riapertura di questi centri, battaglia che ha trovato l’adesione anche del senatore dem e pro-lgbt Sergio Lo Giudice. Dalla galassia della sinistra arriva poi la lettera scritta dalla presidente nazionale di Arci, Francesca Chiavacci, a Minniti affinché faccia un passo indietro sui Cie (qui il testo).

LA POSIZIONE DEL MONDO CATTOLICO

L’ipotesi di riapertura dei Cie non convince nemmeno il mondo cattolico. Da una rassegna di opinioni messe in fila da Avvenire si evince il duro giudizio espresso dalla Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Cei, per bocca del presidente don Giancarlo Perego: “Si vuole riproporre una brutta copia di realtà già condannate della Commissione europea dei Diritti dell’Uomo e incorse anche in sentenze della magistratura Italiana”. Parla invece di “proposte parziali, frammentate, legate all’emozione del momento e che già in passato si sono dimostrate fallimentari” don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità di Milano, mentre don Armando Zappolini presidente del Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienza) esprime la sua delusione nello scorgere segnali di “un inasprimento di misure che si sono dimostrate totalmente fallimentari”.
Una posizione ben diversa era però stata espressa nei giorni scorsi dal presidente della Cei e arcivescovo di Genova, cardinale Angelo Bagnasco, che a margine di un incontro con il governatore ligure Giovanni Toti a Genova, interpellato sulla possibilità di riapertura di un Cie in regione, aveva detto che “tutto ciò che è utile, strumenti, idee e percorsi per poter veramente sciogliere questa realtà nel senso dell’integrazione e della sicurezza generale, sono esperienze e iniziative da ben accogliere, soprattutto se magari in altre parti d’Italia sono già state messe in atto. Vedere risultati altrove significa poter essere più determinati e fiduciosi qui da noi”.

L’APPOGGIO DI LATORRE A MINNITI

Si dice sorpreso per la posizione di molti compagni di partito il senatore del Pd Nicola Latorre. Intervistato dal Corriere, sottolinea come Minniti abbia finalmente messo in moto una “strategia complessiva per gestire i flussi migratori, che tenga insieme nuove politiche di integrazione, gestibilità del rapporto tra comunità e migranti, rafforzamento della prevenzione nella lotta al terrorismo e per la sicurezza”. I nuovi Cie, spiega LAtorre, saranno “non luoghi di parcheggio ma luoghi agili, piccoli, di identificazione dei migranti” indispensabili per il riconoscimento e il rimpatrio di chi non ha diritto di asilo. Si pensa a 1 Cie per regione, conclude Latorre, così da poter gestire il flusso senza creare “parchi-lager”.

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