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L’opinione pubblica – anche quella britannica, di solito tanto flemmatica – rimane sempre sconcertata dal fatto che i terroristi di matrice islamica – definiti “terroristi fai da te” o “terroristi della porta accanto” o “lupi solitari” – tanto solitari poi non sono, ma sono già schedati negli archivi dell’intelligence e della polizia. Si appoggiano a una rete di sostegno, di simpatizzanti o semplici conoscenti. Lo stesso capitava con le Brigate Rosse, la cui rete logistica non è stata completamente smantellata. Soprattutto, in Lombardia, i terroristi venivano sostenuti da organizzazioni estremamente flessibili, come il Soccorso Rosso, aventi compiti ausiliari, le cui cellule venivano attivate in caso di necessità.

Più che reti operative, capaci di pianificare e organizzare attentati, erano e sono reti logistiche, in cui gli autori di un attentato possono anche trovare rifugio a cose fatte. Non essendo permanentemente attive sono difficili da individuare e da tenere sotto controllo. Per prevenire che facciano danni occorre conoscerle. Infiltrare le reti è difficile. Per monitorare in continuazione un sospetto terrorista sono necessarie diverse decine di agenti altamente specializzati, capaci di pedinarlo senza essere scoperti. Quando il numero dei sospetti o presunti terroristi supera qualche decina, è impraticabile poterli tenere d’occhio tutti.

Il terrorista solitario, che progetta di compiere un attentato, come quello di Londra, con mezzi di comune uso, come un SUV e un coltello, è anche un “terrorista fai da te”. Non può essere fermato colpendo la sua rete di sostegno logistico, costituita spesso da simpatizzanti del tutto ignari di quanto stia progettando.

E allora che fare? A parer mio ben poco, anche se il potenziale attentatore è riportato nei “files” delle forze di sicurezza e sottoposto a saltuari controlli. Anche il suo livello di pericolosità è difficile da definire e da modificare. Errori sono sempre possibili. Dopo un attentato, le forze di sicurezza sono accusate d’incapacità. I potenziali terroristi sono catalogati in cinque files dell’intelligence e della polizia, generalmente in cinque livelli crescenti di pericolosità. Spesso sono iscritti non per il sospetto che possano essere terroristi, ma per reati comuni, in particolare per traffico di droga o per proselitismo e contatti sul web. Per ragioni di disponibilità di risorse solo i pochi ritenuti più pericolosi sono sistematicamente controllati. Va notato che gli stessi testi sacri dell’Islam predicano la “dissimulazione”. Spesso i terroristi operanti in Europa ne sono maestri, complicando ulteriormente il compito di chi deve controllarli. Solo qualora si tratti di cellule con un numero elevato di appartenenti, del tipo di quella che effettuò gli attentati dell’11 settembre 2001 a Washington e New York, diventa più possibile l’infiltrazione di un agente al loro interno. Senza tale circostanza, spesso del tutto casuale, vi è ben poco da fare. Senza “soffiate” la conoscenza di un attentato avviene solo dopo la sua effettuazione. Solo allora, si possono attivare ricerche più mirate, volte a neutralizzare i “manovali” del terrorista, spesso controllando chi ha contattato telefonicamente.

L’attuale terrorismo – che trae ispirazione dall’ISIS o dalla rinata al-Qaeda non ha importanza – non ricorre generalmente ad attentati su larga scala. Teme che i lunghi tempi di pianificazione e l’aumento del numero dei partecipanti faciliti la loro individuazione. Ricorre a individui singoli. Spesso essi operano d’iniziativa, sulla base di direttive di larga massima provenienti dai loro ispiratori, che poi sfruttano mediaticamente l’evento, anche per dare l’impressione che dispongano di una potente organizzazione segreta, pronta a colpire le nostre società. Con ciò, si pongono le basi per drammatizzare ogni attentato. L’amplificazione del terrore è favorita dalla tendenza a trasformare ogni evento in spettacolo. Le forze di sicurezza devono stare al “gioco” per compiacere i media, che con tale sistema aumentano l’audience.

L’impatto reale umano ed economico del terrorismo è trascurabile, rispetto a quanto è percepito. Molto maggiore per inciso è quello delle misure di sicurezza, molto più costose e che incidono sul nostro grado di libertà. Dall’inizio del secolo – tenendo cioè conto anche degli attentati dell’11 settembre – la percentuale dei morti per terrorismo in Occidente è stata inferiore a quella dei morti inceneriti dai fulmini. E’ poi pari a circa un terzo dei morti per scivolata nel bagno. Ma giornalisti zelanti sono portati a sottolineare gli aspetti drammatici di ogni attentato, amplificando enormemente il suo impatto psicologico e politico.

Lo si è visto anche a Londra. La premier May si è comportata in modo alquanto scomposto per la tradizione britannica. La Thatcher sarebbe rimasta imperturbabile al suo posto e non avrebbe interrotto la seduta della Camera dei Comuni. Soprattutto non si sarebbe messa a sgambettare nei cortili di Westminster. Se ciò è avvenuto nel Regno Unito, immaginiamo che cosa capiterebbe in Italia, soprattutto in periodo elettorale. L’ondata emotiva di un attentato di una certa dimensione travolgerebbe ogni razionalità. Impossibile è prevederne l’impatto reale. Se sarebbero rafforzati i vecchi partiti politici oppure le forze “antisistema”. Il paese potrebbe esserne destabilizzato. Sarebbe forse preferibile sospendere la consultazione, in attesa che lo tsunami emotivo si plachi. Forse qualche simulazione su quanto potrebbe accadere e la sua illustrazione al pubblico potrebbe rafforzarne la resilienza. Potrebbe anche essere utile per mettere a punto una strategia comunicativa istituzionale, volta a contenere gli effetti destabilizzanti di un attentato, su cui molti si butterebbero come sciacalli.

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