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No. Sono anni che gli italiani votano e dicono no: consumano, con una velocità spasmodica, partiti, movimenti, leader. Ora tocca a Renzi, che solo tre anni fa sembrava essere riuscito a conquistare un consenso trasversale ed ora è travolto nelle urne. Non in quelle politiche, come sarebbe logico, ma in consultazioni che, come quelle europee che ne segnarono l’ascesa, vengono immediatamente caricate di un valore politico indiretto. Il rottamatore finisce, dopo soli mille giorni di governo, rottamato. E senza che ci sia un’alternativa di governo credibile, nemmeno numericamente, né allo stato attuale né presumibilmente dopo eventuali elezioni. Sempre che si conservi la divisione venuta fuori dalle urne.

Questo anelito alla “muoia Sansone con tutti i filistei”, che non era delle vecchie culture politiche, dicono sia un aspetto del “populismo”, associando al termine una connotazione morale che ci preclude una seria comprensione politica di ciò che sta accadendo. In questo preciso senso, non è anche questa incomprensione antipolitica?

Molto probabilmente bisognerebbe addentrarsi con maggiore rispetto e attenzione nello studio della società, nei suoi mutamenti, nei sentimenti e risentimenti del cittadino qualunque. E da qui partire per nuove sintesi politiche che non restino chiuse nel Palazzo, in sé autoreferenziali.

I problemi dell’Italia risalgono agli anni Settanta, quando cioè è cominciato il nostro “declino”, che non è un’impressione ma un elemento corroborato dai dati. È certo che solo la società e non la politica può risolvere questo declino, ma la politica da parte sua potrebbe molto: arretrare, semplificare, dare spazio a quegli “spiriti animali” che si presume ci siano ancora o che quanto meno possano essere attivati. È abbastanza condivisibile e ragionevole pensare che questa “sottrazione” della politica debba avvenire lungo due direttrici: una riforma radicale dell’ordinamento dello Stato, della forma di governo, della legge elettorale, della pubblica amministrazione; politiche liberiste di liberalizzazione e decorporativizzazione serie e controllate dallo Stato. Uno Stato dimagrito ma non per questo meno forte.

Ma una cosa è la ragione, una cosa è la politica, che tiene conto degli interessi diffusi e che soprattutto deve badare al consenso. Quando il politico riesce a trovare una sintesi fra i due elementi, può a buon ragione dirsi uno statista e segnare il suo tempo. Renzi ovviamente non è stato uno statista. Egli ha però provato a risolvere una serie di problemi non indifferenti della “macchina Italia”.

Prima di tutto ha affrancato il PD da una serie di “catene” ideologiche che finivano per essere uno dei più potenti blocchi al cambiamento: purtroppo il “colpo definitivo” che questo referendum poteva dare alla sinistra-sinistra non c’è stato e il rischio concreto è che essa possa riprendere ora in qualche modo vigore. Quanto invece alle due direttrici suddette egli si è incamminato lungo la prima, ricevendo però una sconfitta per via della Consulta sulla riforma amministrativa e dall’elettorato su quella costituzionale. Quanto alla seconda, la via liberista, egli non l’ha né voluta né potuta intraprendere.

Non ha voluto perché aveva necessità di cementare il consenso sociale alle sue politiche, che ha cercato di ottenere con mance e politiche welfaristiche, non ha potuto perché comunque il suo elettorato è in larga maggioranza di sinistra e non di destra. Se questo schema di analisi ha un qualche valore, si capisce che per l’Italia, almeno che non si voglia credere che il M5s possa essere un’alternativa, l’unica via realistica e realizzabile è una convergenza di centrodestra e centrosinistra sulle riforme (ove al centrodestra toccherebbe portare la necessaria “anima liberista”).

In altre parole: un “patto del Nazareno” più chiaro, esplicito e magari con altri protagonisti rispetto a quello precedente. Averlo fatto vivere di sottintesi prima e averlo rotto poi è stato a mio avviso l’errore strategico di Renzi, troppo sicuro di sé al limite della protervia: oggi ne paga le conseguenze. Aver votato per fargliela pagare fino in fondo è stato invece probabilmente l’errore fatale di Berlusconi, quello che lo consegna ostaggio delle forze estreme e lepeniste nella destra e gli fa perdere l’unica sponda veramente riformista (nel senso di non legata più alle storiche “catene”) che aveva a sinistra. Dio, come si sa, acceca chi vuol perdere. Speriamo che la partita definitiva non la perda l’Italia.

Vi spiego l'errore strategico di Matteo Renzi

No. Sono anni che gli italiani votano e dicono no: consumano, con una velocità spasmodica, partiti, movimenti, leader. Ora tocca a Renzi, che solo tre anni fa sembrava essere riuscito a conquistare un consenso trasversale ed ora è travolto nelle urne. Non in quelle politiche, come sarebbe logico, ma in consultazioni che, come quelle europee che ne segnarono l'ascesa, vengono…

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