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La rivoluzione portata in pochi anni da internet e dalle tecnologie digitali ha cambiato e migliorato le nostre vite: è molto più facile informarci, scegliere, comunicare, viaggiare, ascoltare musica, gestire i risparmi, comprare qualsiasi oggetto o servizio.

E davanti a noi si aprono grandi opportunità. Penso ad esempio alla nostra salute: grazie a nuove applicazioni digitali potremo prevenire molte malattie e dedicarci al nostro benessere: cioè vivere meglio e più a lungo. Oppure penso al maggior comfort e sicurezza che potremo avere grazie all’internet delle cose, o ancora a come lo “smart working” renderà più flessibile il nostro tempo e più gestibili in autonomia le nostre vite.

La velocità e la profondità di questi cambiamenti porta però anche importanti complicazioni. Per prima cosa, non tutti riescono a cogliere queste nuove possibilità. Si apre quindi il “digital divide” tra i cittadini: un gap che è dato non tanto dall’accesso ad internet o alla banda larga (condizioni appunto di accesso, e quindi sì necessarie ma non sufficienti) quanto dalla diversa attitudine delle persone verso l’uso del digitale. Un gap culturale e generazionale più che tecnico o di competenze, e pertanto più difficile da superare, che divide e lascia indietro larga parte dell’attuale popolazione.

Ci sono poi le conseguenze sulle organizzazioni, cioè sul mondo del lavoro. Con la digitalizzazione e la globalizzazione (due forze che si sostengono a vicenda) il mondo del lavoro è diventato instabile: è più volatile, incerto, complesso e ambiguo di quanto non sia stato mai in passato. E certamente non tornerà più quello di prima. Per le aziende stanno cambiando gli stessi perimetri dei mercati di riferimento e i modelli di business con cui devono operare su questi mercati. È accaduto per la telefonia, i media, l’editoria, il turismo, la musica e la grande distribuzione, e ora sta accadendo anche per la produzione e la manutenzione industriale, la cura della salute, le banche, le assicurazioni e l’energia. Apple da sola ha stravolto il modello di business e i confini di almeno tre industrie globali: prima quella dei computer, poi quella della musica e infine quella della telefonia. A sua volta Google ha riconfigurato il business della pubblicità, Airbnb quello dei viaggi e Amazon quello delle vendite al dettaglio.

A fronte di tutta questa nuova complessità e incertezza occorre avere organizzazioni molto più flessibili, dinamiche, aperte e reattive che in passato. E per farlo è necessario un profondo cambiamento dei modi di funzionamento, dei modelli e persino dei valori ai quali le aziende si ispirano.

Per le aziende si tratta di cambiamenti molto meno semplici di quanto non sia per una persona imparare ad esempio a usare internet prima di acquistare qualcosa. Sia perché le aziende sono organizzazioni complesse da coordinare, e si muovono quindi per definizione più lentamente di un individuo, sia perché il potere è concentrato ai loro vertici, che sono quelli che devono imprimere il cambiamento ma che spesso sono anche i meno pronti e i meno incentivati a farlo.

E tuttavia è proprio la capacità di realizzare i cambiamenti culturali e organizzativi che si rendono necessari in un’economia ormai digitalizzata a marcare il “digital divide” tra le organizzazioni, cioè la differenza tra le aziende di successo e quelle destinate a estinguersi.

Parole consolidate da più di un secolo nel lessico aziendale come quelle di “fornitore”, “cliente”, “concorrente”, “canale commerciale”, “prodotto”, “capo” o “dipendente” hanno definito in modo chiaro e esauriente il ruolo dei principali attori all’interno di un mondo del business che era più stabile e ordinato. Perdono però molta efficacia e significato oggi, che ogni business è più fluido e per avere successo non ci possiamo più basare sulla terna pianificazione-comando-controllo, ma dobbiamo invece costruire organizzazioni che operino come reti flessibili, interconnesse e intelligenti, attrezzate per cavalcare le onde del continuo cambiamento.

Prendiamo ad esempio il cliente: in un mondo in cui tutto si trasforma in servizio (persino le auto, nel mondo di Uber, Tesla e Google-car, verranno vendute sempre meno come un semplice oggetto e sempre più come parte di un servizio di mobilità), la personalizzazione del servizio sul cliente diventa più importante. Il cliente viene sempre più spesso coinvolto nel processo produttivo (pensiamo al crowdsourcing) ed in quello di promozione commerciale (pensiamo al passaparola sui social media, o a servizi come TripAdvisor). Il cliente diventa quindi al contempo per le aziende anche un fornitore e un potente promotore (o detrattore!) commerciale.

Oppure prendiamo il dipendente: in un mondo in cui il ritmo di innovazione richiesta per competere è sempre maggiore, diventa fondamentale che i “dipendenti” sappiano adattare velocemente e autonomamente le proprie azioni alle diverse situazioni e possibilità. Una semplice risposta sbagliata di un dipendente a un cliente data oggi tramite i social media può ad esempio generare per l’azienda gravi conseguenze di immagine. Al dipendente è quindi richiesto di essere più autonomo e imprenditore, e con questo diventa fondamentale all’interno delle aziende una forte condivisione dei valori, degli obiettivi e dei comportamenti comuni, cui ciascuna persona dovrà poi ispirare le proprie autonome azioni.

I ruoli quindi si confondono, e collaborazione e fiducia reciproca diventano il collante delle organizzazioni vincenti. Per le aziende e per i loro “capi” diventa perciò fondamentale la capacità di identificare comunicare e testimoniare dei valori e degli obiettivi in grado di generare ispirazione e condivisione tra i clienti, i dipendenti, i fornitori e le comunità del territorio su cui l’azienda è insediata. Che, oltre che semplici stakeholder cioè portatori di propri interessi, le aziende farebbero bene a considerare come potenziali partner.

Una bella sfida per gran parte delle aziende che conosciamo oggi, non vi pare?

La trasformazione digitale passa da nuove modalità di lavoro

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