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Dietro le quinte, continua e si intensifica il dibattito tra Italia (e non solo) e l’Unione europea sull’output gap: dal suo esito dipenderanno le decisioni dell’Ue sul bilancio 2017, del Documento di economia e finanza (Def) e del Piano nazionale delle riforme (Pnr). È un elemento puramente tecnico-statistico che ha assunto una marcata valenza politica nel confronto alcuni Stati dell’Ue e la Commissione: il calcolo dell’output gap misura il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. I trattati europei e il Fiscal compact fanno riferimento, per il calcolo dei vari parametri dell’Unione, all’equilibrio strutturale di bilancio, che vuol dire al netto di effetti ciclici di breve periodo. Quanto più piccolo è il gap, tanto minore è la componente ciclica di disavanzo pubblico che si può sottrarre dal computo degli indicatori da confrontare con i parametri europei.

Nonostante la Commissione europea e l’Ocse utilizzino lo stesso metodo di calcolo per il Pil potenziale, le differenze nelle ipotesi a base delle misurazioni possono portare a risultati drasticamente divergenti. Le stime differiscono in particolare riguardo alla definizione di disoccupazione strutturale: mentre l’Ocse si serve del concetto di Nairu (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment), ossia quel tasso di disoccupazione che garantisce la stabilità dei prezzi, ancorando le aspettative agli obiettivi della Banca centrale (2% nell’Ue), la Commissione si basa sul Nawru (il Wage Gap of Unemployment), il tasso di disoccupazione che non altera la dinamica salariale. Bruxelles incorpora così nel concetto di “disoccupazione strutturale” buona parte della disoccupazione derivante dal ciclo economico, con implicazioni a ribasso sul Pil potenziale. Prendendo il documento della Commissione “Come utilizzare al meglio la flessibilità prevista nel Patto di Stabilità e Crescita”, nel 2015 l’output gap sarebbe stato pari a -3,8% per l’Italia, che si sarebbe dovuta trovare in una congiuntura moderatamente sfavorevole: questo avrebbe comportato l’obbligo di aggiustare il saldo strutturale di uno 0,25% del Pil. Secondo le procedure Ocse, invece, l’output gap sarebbe stato di -5,8 punti percentuali. L’Italia sarebbe stata in una fase eccezionalmente sfavorevole e non le sarebbe stato richiesto nessun aggiustamento. Con un maggiore beneficio per le famiglie e una maggiore spinta a investire per le imprese. Gli Stati Ue che si considerano sfavoriti dal metodo della Commissione si sono più volte rivolti a Bruxelles.

In questi giorni è uscito un importante lavoro quantitativo: lo studio di Markus Ahlborn e Marcus Wortmann, ambedue della Georg-August Unversità, “Gottigen Output Gap Similarities in Europe: detecting country groups” (Somiglianze nell’output gap in Europa: individuare gruppi di Paesi analoghi), Paper No. 305 di Febbraio 2017 del Centre for European Governance and Development. La novità è che applicando una rodata metodologia statistica a 27 Paesi europei (i 28 dell’Ue meno Cipro, Malta e Lusssemburgo, più Norvegia e Svizzera, ai dati trimestrali del Pil dal primo trimestre 1996 al quarto trimestre 2015), lo studio identifica un gruppo centrale (o “core”) di ciclo economico europeo, ossia di Paesi che si muovono alla stesso passo e che quindi costituiscono un’area europea omogenea. Questi sono i Paesi strettamente collegati alla Germania come Danimarca, Svezia, Svizzera e il Regno Unito, il Benelux, nonché la Repubblica Ceca, la Polonia e l’Ungheria (tre Stati che secondo l’analisi sono pronti ad adottare l’euro).

Per altri Paesi della periferia con cicli economici meno sincronizzati con il gruppo “core” , sia che si adotti Nairu o il Nawru, le conseguenze sono che se l’unione monetaria mantiene l’attuale composizione, l’attuale politica monetaria e gli attuali tassi di cambio, appartenere all’euro diventerà una strada sempre più costosa per loro, sempre se non applica speditamente drastiche riforme economiche. Tuttavia, la divergenza tra la periferia del sud e il “core” può ridursi (grazie alle riforme) anche se i Paesi fanno parte di un’unione monetaria. Al contrario, i dati sulla periferia dell’est mostrano che la sincronizzazione con il “core” può aumentare in certe condizioni (ma non in un’unione monetaria).

L’analisi pubblicata nell’ultima settimana di febbraio pone importanti interrogativi non solo in merito alle valutazioni delle politiche nazionali ma anche e soprattutto sull’irreversibilità dell’unione monetaria come concepita negli anni Novanta e sulla flessibilità per mettersi al passo con il “core”.

Perché in Italia non se ne parla?

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