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Ricordiamo oggi, a distanza di cento anni, la nascita di un grande statista italiano e ringrazio il sottosegretario Luca Lotti, i relatori, Giuseppe Vacca e Renato Moro, e gli intervenuti a questa cerimonia, il Presidente Napolitano, i Presidenti delle Camere e i familiari di Aldo Moro per la loro presenza.

Nella figura di Aldo Moro, più che in quella di altri, si riassume la “fatica della democrazia”, opera sempre in divenire, mai definitivamente compiuta.

Moro, ci è stato ricordato, fondava la sua testimonianza politica sul superamento della concezione di uno Stato autoritario all’interno e aggressivo all’esterno. Lo Stato andava orientato, invece, con decisione, al continuo rafforzamento delle basi della democrazia e di un ordine internazionale ispirato alla distensione e al superamento degli squilibri esistenti.

La convinzione del valore dell’unità popolare, raggiunta con la Resistenza e consolidata con la Costituzione, costituiva per lui la premessa di ogni percorso di rinnovamento sociale e istituzionale.

Fermo e instancabile nel perseguire la sua visione anticipatrice, era portatore di quella “vocazione all’intesa”, di quella consapevolezza del valore del confronto che contribuirono ad attribuirgli l’immagine del mediatore – tra le forze politiche, così come tra le opinioni e le tendenze presenti nel suo partito.

Esercitò questa azione di alta mediazione – ben diversa dal compromesso al ribasso – anche tra gli attori sulla scena internazionale, come emerse più volte, con chiarezza, nell’ambito dell’allora Comunità Europea. La esercitò lungo il processo della Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa che avrebbe portato poi, nel 1975, all’Atto finale di Helsinki. Momento tra i più importanti del percorso della distensione, con l’introduzione del tema dei diritti umani tra quelli centrali nelle relazioni internazionali. Per molti aspetti, uno degli elementi che avrebbero concorso a far esplodere le contraddizioni nelle società e nei Paesi riuniti nel sistema sovietico chiuso dalla Cortina di ferro.

Protagonista della seconda e della terza fase del dopoguerra italiano, Moro si distinse per l’opera prestata a favore di un dialogo permanente e rispettoso tra le forze politiche del Paese e per lo sforzo, intenso e prolungato, teso a rendere le istituzioni democratiche permeabili alle istanze della società civile, interpretandole e inserendole nella vita dello Stato.

Tra gli intellettuali e gli uomini politici della sua levatura, Moro appariva il meno dogmatico e il più aperto alle novità che emergevano nella società, costantemente interessato a conoscere, in particolare, le speranze, le aspirazioni, i bisogni che maturavano nell’animo dei giovani.

Una leadership forte la sua, reduce, nella stagione del ’68, da una prolungata guida del governo; attenta all’ascolto delle istanze critiche, di esperienze inedite, di nuovi orizzonti.

Cruciale, in Moro, il rapporto Stato-politica-società. La comprensione dei fatti sociali, delle loro interrelazioni, dei collegamenti con le ansie crescenti negli altri Paesi, si accompagnava a un profondo rispetto nei confronti dei fenomeni nuovi, verso i quali si poneva in atteggiamento di ascolto, per fare in modo che riannodassero il loro percorso all’ambito della democrazia repubblicana e arricchissero i modelli di vita comune organizzata nelle istituzioni. Vedeva queste, cioè, costantemente modulate sugli effetti positivi delle trasformazioni in atto nel Paese.

Uno slogan fortunato tradusse questo desiderio di comprensione nella espressione “strategia dell’attenzione”, riferita ai nuovi fenomeni sociali e ai nuovi processi politici.

Lo sorreggeva la capacità di inserire il particolare nel generale, avendo sempre presente il rapporto tra il singolo avvenimento e la visione complessiva, per non rinunziare a coglierne tutti gli elementi, evitando artificiose semplificazioni.

Leopoldo Elia ebbe a definire lo statista pugliese come “il grande integratore della democrazia”.

Sapeva, Moro, che dovere – e possibilità – della democrazia è interpretare la società.

Allora – come oggi – si trattava di comprendere le ragioni dei suoi fenomeni, delle sue attese e anche dei suoi umori e di elaborare una proposta politica e di governo che, assumendo quegli elementi, ne cogliesse i caratteri fecondi e ne divenisse riferimento.

Moro non rinunciava ad affidare alla politica il dovere e il compito di indicare mete collettive, di guidare processi di innovazione. Proprio per questo gli appariva irrinunciabile l’esigenza dell’ascolto, il bisogno di intendere la complessità dei problemi e delle vicende.

In questo ambito, all’epoca della repubblica dei partiti, Moro attribuiva alle forze politiche una responsabilità propria: “Riportare allo Stato – sono parole sue – quello che dalla società deve necessariamente giungere allo Stato, perché la stessa autonomia della vita sociale sia opportunamente garantita e sviluppata”.

Per questo la sua visione era l’esatto contrario di concezioni conservatrici. Lo animava una forte spinta alla innovazione: nel sistema politico, nella definizione di nuove opportunità nella società, con la stagione delle riforme.

Per lui immutabilità avrebbe significato, diceva “compiere una rinuncia, la rinuncia a una splendida funzione che passerebbe ad altri, comportando anche il venir meno di una ispirazione cristiana, in effetti eccessiva e inutile per una funzione di mera conservazione”.

Da queste sue parole emerge come, animato da fiducia nello Stato democratico, Moro non mancasse mai di sottolineare la necessità di ricondurre alle forme partecipative gli elementi di contestazione presenti nella società, fossero le lotte sindacali o quelle studentesche. Scelta che comportava il dovere delle istituzioni di farsene attente ascoltatrici.

Peraltro, lo sforzo di comprensione e di integrazione era, a suo giudizio, più che necessario, connaturato alla politica, perché, senza di esso, questa sarebbe stata incapace e avrebbe perso autonomia e autorevolezza.

Sovente, nel percorso delle responsabilità alle quali ha fatto fronte, Aldo Moro si è dovuto confrontare con il contesto nel quale operava e con i tempi necessari al conseguimento degli obiettivi proposti.

In equilibrio tra i limiti delle circostanze della storia, il realismo del possibile e la carica di inappagamento che spinge verso il futuro, gli stava a cuore che le scelte annunciate trovassero effettiva attuazione e, quindi, nel tempo e con le modalità che consentissero di realizzarle davvero, con la maturazione necessaria per consolidare il consenso intorno ad esse.

Rifuggiva, proprio per questa ragione, da annunci fine a se stessi, da gesti plateali che avrebbero sfiorato la realtà, senza riuscire a incidervi.

Anche alla Assemblea Costituente era stata espressa l’idea di Moro della necessità di dover procedere alla costruzione di una “casa comune” per la nuova democrazia italiana: la Costituzione, con le convergenze necessarie.

Disse, alla Costituente: “Se nell’atto di costruire una casa comune, nella quale dobbiamo ritrovarci ad abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita”.

Si trattava di una concezione sostanziale delle norme della Costituzione – soprattutto di quelle della sua Prima Parte – che auspicava unità delle forze politiche sui valori di base, senso comune delle istituzioni, coesione sociale.

Con una salda convinzione sugli orientamenti di fondo della sua azione: la liberazione dell’uomo, dai bisogni, dall’emarginazione, dalle insicurezze.

Anche in quella sede Moro manifestava l’attitudine a perseguire con tenacia i propri obiettivi, attraverso una mediazione intesa come raccordo più alto; e inclusivo delle ragioni dell’interlocutore.

Superando fasi non facili della democrazia italiana negli anni ’60 del secolo scorso, l’azione dello statista fu efficace nel sottrarre il Paese a tentazioni, ancora presenti, di avventure autoritarie, riuscendo, con il concorso dei partiti, allora definiti dell’arco costituzionale, nell’opera di rafforzamento delle istituzioni democratiche e di conciliazione tra istituzioni e società.

Lo guidava l’acuta percezione del carattere ancora fragile della democrazia italiana. Anche per questo contrassegnava la forza politica nella quale militava e che ha guidato a lungo, come “partito democratico, popolare, antifascista”.

Non va dimenticato che, per un periodo non breve, da metà anni Sessanta fino alla metà degli anni Settanta, l’Italia è stata, a parte la Francia, l’unico paese democratico nel Sud Europa.

Nella stagione del centrosinistra, all’inizio degli anni Sessanta, e in quella della solidarietà nazionale, nella seconda metà degli anni Settanta, non mancarono vincoli interni e pressioni, ostacoli nazionali e internazionali.

L’intento di Moro, nel guidare quelle operazioni politiche, era costante: ricercare l’unità di fondo e avvicinare forze politiche contrapposte, la cui forte diversità, nella visione delle istituzioni, si era venuta attenuando, grazie a un comune percorso democratico; convinto, come era, che un impegno condiviso di responsabilità di governo avrebbe fatto definitivamente superare quella diversità, con beneficio per la democrazia italiana.

Del resto, rivolgendosi, nel 1977, al principale partito di lunga contrapposizione, Moro rivendicava il percorso di trent’anni di democrazia con questa osservazione: “Quello che voi siete, noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo, voi avete contribuito a farci essere”.

Aveva un senso nobile della dignità della politica che lo portava, naturalmente, al rifiuto di ogni manicheismo, a vantaggio del dialogo, della comprensione delle ragioni altrui.

Un atteggiamento che si sarebbe rivelato prezioso anche nel contributo che ebbe a dare alla politica internazionale dell’Italia, che appariva sempre più consapevole di dover sviluppare forme strutturate di interdipendenza tra Paesi liberi e alleati, tra Paesi vicini.

La sua insistenza per l’inserimento della questione mediterranea nell’agenda della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa, appare, oggi, di singolare preveggenza.

In un intervento alla Camera dei Deputati, il 23 luglio del 1973, ammoniva: “la sicurezza è indivisibile e non si possono assicurare pace ed equilibrio in Europa, senza garantirli anche nel Mediterraneo”.

L’Atto finale di Helsinky reca la sua firma, nella doppia qualità di rappresentante dell’Italia e presidente di turno della Comunità Europea. Un punto fermo nelle relazioni internazionali che – come ho già ricordato – spinse a dar vita a forme di maggior cooperazione anche tra i due blocchi in cui si divideva allora il continente europeo.

A oltre quaranta anni da quell’avvenimento si avverte l’esigenza di uno slancio analogo, in queste diverse condizioni in cui viviamo, verso equilibri di pace, con un’Europa più robusta, sfidata nella sua capacità di essere protagonista di un ordine più giusto.

Dalla testimonianza di personalità come Aldo Moro ci giungono, con forza, suggestioni importanti e lezioni che fanno riflettere.

Pietro Scoppola, parlando di un Moro perennemente in sospeso tra politica e storia, metteva, tuttavia, in guardia dal pretendere “di attualizzarlo”. Il rischio – diceva – è quello “di deformarlo”, di travisarne i lineamenti e la personalità.

Il suo drammatico e crudele assassinio ha sottratto alla Repubblica una figura di rilievo centrale.

Ripensare compiutamente Aldo Moro e la sua intera vita, nella sua dimensione umana, in quella culturale, in quella politica, in quella spirituale, costituisce, oggi, un atto di libertà, una vittoria contro i terroristi e le loro violenze, un risarcimento all’intero Paese.

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