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“Lisbona è distrutta e a Parigi si balla”: così scriveva Voltaire subito dopo il terremoto che il primo novembre 1755 aveva raso al suolo la capitale del Portogallo. Non appena ne viene a conoscenza, il grande filosofo dell’Illuminismo compone il “Poema sul disastro di Lisbona”, in cui si scaglia contro l’ottimismo religioso di Gottfried Wilhelm von Leibniz. Nella sua “Teodicea”, lo scienziato e pensatore tedesco aveva affermato che l’umanità vive “nel migliore dei mondi possibili”. Voltaire rigetta l’assioma, e si chiede come si possa definire in tal modo un mondo in cui accadono tragedie come quella che aveva sterminato decine di migliaia di innocenti.

Una polemica a cui non poteva rispondere Leibniz, scomparso nel 1716, ma che apre una disputa  intellettuale destinata a segnare profondamente l’idea stessa di modernità.

Oltre a Leibniz, nel mirino di Voltaire c’era il poeta cattolico inglese Alexander Pope, il quale nel suo “Saggio sull’uomo” (1730-1732)  aveva sostenuto che “una verità è chiara: qualunque cosa esista, è giusta”. E proprio a Leibniz e Pope si rivolge Voltaire fin dalle prime righe, accorate e rabbiose, del suo “Poema”: “Poveri umani! Povera terra nostra! Terribile cumulo di disastri! Consolatori eterni di inutili dolori! Filosofi che osate gridare: Tutto è bene, venite a contemplare queste rovine orrende: muri a pezzi, carni a brandelli, ceneri infauste. Donne e infanti ammucchiati l’uno sull’altro sotto pezzi di pietre, membra sparse, centomila feriti che la terra divora, straziati, sanguinanti ma ancora palpitanti, sepolti sotto i loro tetti, perdono senza soccorsi, tra atroci tormenti, le loro misere vite”. E dopo essersi rivolto direttamente a loro, ai filosofi “consolatori eterni di inutili dolori”, chiede provocatoriamente: “Ai deboli lamenti di voci moribonde, alla vista pietosa di ceneri fumanti, direte: è questo l’effetto delle leggi eterne che a un Dio libero e buono non lasciano la scelta? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: fu questo il prezzo che Dio fece pagare per i loro peccati? Quali peccati, quali colpe hanno commesso questi infanti sul seno materno schiacciati e sanguinanti?”.

L’opera di Voltaire ebbe una una enorme diffusione in tutta Europa, con numerose edizioni a stampa. Una delle prime copie manoscritte fu spedita dall’autore a Jean-Jacques Rousseau. Il  filosofo ginevrino gli rispose con una lunga lettera (agosto 1756),  in cui contestava il suo radicale pessimismo e sottolineava la responsabilità degli uomini: “Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento, o forse non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l’indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto”.

Più tardi, l’indignazione di Voltaire diventa ironia e sarcasmo: Leibniz veste i panni di Pangloss nel suo romanzo “Candido o l’ottimismo” (1759), viene ridicolizzato e fatto ardere sul rogo dell’Inquisizione, per concludere che di fronte ai mali del mondo, di cui non conosciamo la natura, era meglio dedicarsi a “coltivare il proprio giardino”.

Nella discussione si inserisce anche il giovane Immanuel Kant, che prende le distanze dalle interpretazioni strettamente teologiche, chiarendo che le catastrofi naturali devono indurre l’uomo a non considerarsi il fine unico ed esclusivo dell’universo.

Kant non si limita a criticare l’approccio fatalistico e superstizioso nei confronti dei disastri naturali, ma pubblica tre saggi sui terremoti (1756). La sua teoria si basava sulla presunta presenza nel sottosuolo di enormi caverne sature di gas caldi. Tesi presto superata dalle successive scoperte, ma che resterà il primo tentativo di spiegazione scientifica del fenomeno.

Terremoto_Corpo Forestale @corpoforestale

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