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Ora che vige lo stop assoluto della protezione civile di inviare beni di prima necessità, e cala l’emergenza donazione, e il numero delle vittime cresce come piccole gocce d’acqua in un oceano di abitudini, ora sarebbe il caso di raccogliere e investire, abbassare il debito pubblico. Ora che abbiamo ricordato il senso della collegialità. Meno grandi opere (per budget non per grandezza) attrattive – di corruzione e più giustizia partendo dalle case e le stradine, i monumenti del cuore e le piazze. Non progetti che sembrano sempre non toccare nessuno da vicino. Ma le vere opere. Quelle che partono dal problema più piccolo. Una casa, una scuola,  una frazione. Perché nelle piccole cose per le quali non ci sono mai tempo, mai soldi, mai raccomandazioni, c’è tutto quello che cerchiamo.

Il terremoto del Centro Italia, con le carenze strutturali di quelle zone, viabilità, collegamenti, infrastrutture ci ha fatto scoprire una grande rete. La rete tra regioni, tra generazioni, tra colori e nazionalità, tra pubblico e privato, e soprattutto il web. Abbiamo constatato con i nostri occhi che in questi momenti “l’hashtag è una via di soccorso da non intasare”.
L’hashtag #terremoto ha aiutato in un momento di tilt delle linee e con le strade bloccate.
Sono caduti i muri, dei tetti in una notte d’estate, nel pieno delle vacanze familiari. Pietre, cemento che hanno ucciso un numero superiore già ai 250 cittadini e altrettanti sono stati estratti vivi dalle macerie, a mani nude dai volontari e i soccorritori della protezione civile. Ma c’è una generosità che non va spenta. In queste ore crea quasi caos. Il desiderio di fornire vestiti e alimenti, di raggiungere le località sconvolte. L’idea di poter essere d’aiuto è quella cosa che nella maggior parte dell’anno non sentiamo. Ci piovono addosso notizie di morte, violenze sulle donne, bambini, vittime di guerra e terrorismo, ma la sensazione è che non ci sia più richiesto fare nulla. La stessa cosa vale per l’economia. Notizie di neet e disoccupati. Di imprenditori che tentano il suicidio. Di operai in cassa integrazione che non riescono a fare fronte al mutuo e perdono la casa. Di mamme che uccidono i figli e di figli che uccidono i genitori. Di ospedali dove si muore di malasanità. Di appalti truccati e lavori bloccati. Di bambini pietrificati e di bombe intelligenti. Di barconi che affondano negli stessi mari in cui ci bagnamo ad agosto. La differenza la fa il sentirsi immediatamente, e anche sotto una regia unica, utili.

Infatti dopo i primi giorni nei quali si organizzano maratone per raccogliere soldi, sangue, vestiti, letti per dormire, nei giorni a seguire sembra che la rete si allenti, che tutto diventi “grandi opere di ricostruzione”, e così senza gusto architettonico e ben presto senza neanche l’impegno di mettere in sicurezza, si passa alle notizie del “dopo”. Di nuovo non è richiesta nessuna collaborazione, la notizia uccide, ognuno di noi nella nostra solitudine: i soldi raccolti dall’attivismo di tutti diventano “politica”.
Intanto a quel bambino senza più mamma, papà, nonno, nonna, zii, cugini, potremmo essere utili soprattutto nel “dopo”.
Il giornalismo che fa incrociare bisogni e soluzioni. Questo chiedono i cittadini. In particolare se l’alternativa suona all’incirca così: “Cosa prova adesso?”.

Cosa prova adesso va bene per noi che eravamo a diversi km di distanza e siamo distrutti, che leggiamo di paesi scomparsi, di famiglie strappate, e pensiamo a quando ci siamo stati noi. A quanto eravamo piccoli. Ai nostri nonni che ci andavano ogni agosto.
Ma non si può chiedere a chi è sopravvissuto e si sente in colpa di vivere.
In uno scenario di morte.
Il bar dello sport. La chiesa della domenica. La scuola. La piazzetta dove sono passate tutte le generazioni. La casa di famiglia. Tutto scomparso sopra i loro cari.

L’amore che c’era.
La solidarietà, l’altruismo non lasciamoli morire rientrando. Il quotidiano ne ha bisogno.

Piangiamo, preghiamo, amiamo

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