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Da sabato la Russia manda messaggi minacciosi agli Stati Uniti a proposito della tregua bilaterale imposta da lunedì 12 settembre: tutto potrebbe saltare per colpa di Washington, dicono vari funzionari del Cremlino. Non è un bel segnale, visto che lunedì 19 sarebbe in teoria il settimo giorno di stop dei combattimenti, quello che dovrebbe portare a un repentino evolversi del percorso: “Repentino” per i russi, che vorrebbero stringere sul creare un comando congiunto da cui coordinare le missioni contro i gruppi jihadisti come lo Stato islamico e l’ex qaedista Fateh al Sham, mentre gli americani ci vanno un po’ più con i piedi di piombo, chiedono garanzie, vogliono spazi di uscita (in mezzo c’è anche una piccola polemica interna, con il Pentagono che fa la parte dello scettico contro altre agenzie di difesa e sicurezza che sono più aperte alla collaborazione).

IL BOMBARDAMENTO AMERICANO

L’episodio che ha infiammato ulteriormente la situazione è stato il bombardamento con cui gli Stati Uniti hanno centrato una postazione di forze governative nei pressi di Deir Ezzor. Gli americani hanno ammesso l’errore, volevano colpire lo Stato islamico, che là controlla quasi tutta l’area, però il targenting è stato sbagliato e al centro dei mirini della formazione di F16 e A10 che hanno compiuto il raid (tre+due, ma il numero potrebbe essere diverso, una discreta potenza di fuoco, un F16 era australiano e pare due danesi, più un Reaper inglese a sostegno) sono finiti i lealisti: decine di morti, chi dice 60 chi 90, e altrettanti feriti, tra quelli che sono forse le uniche forze di Damasco che combattono realmente l’IS. Lo fanno per ragion di vita, perché si trovano da mesi accerchiate in un area cittadina intorno all’aeroporto, scollegate da qualsiasi linea di approvvigionamento (che ogni tanto arriva dal cielo) e ci tengono a mantenersi cara la pelle, anche perché ormai non possono fuggire e il comando siriano non può evacuare tutti. I baghdadisti hanno più volte cercato di assaltare anche quest’ultimo fazzoletto di terra, ma senza successo, ed è probabile che nelle considerazioni strategiche dei comandanti jihadisti ci sia anche mantenere lo status quo, tenendo in mano un gruppo di soldati e un po’ di siriani come ostaggi (sebbene russi e siriani siano concentrati più a ovest, nelle aree più vicine alla roccaforte Latakia e a Damasco). Sabato, dopo il raid americani andato fuori bersaglio, i soldati dello Stato islamico hanno lanciato un attacco contro i siriani, si sono mossi in avanti conquistando un check point in un’area collinare intorno alla zona assediata, approfittando del momentaneo indebolimento. Domenica Damasco ha addirittura annunciato che i baghdadisti avevano abbattuto un jet siriano a Deir Ezzor, intervenuto per far fronte all’offensiva dell’IS: è un’ammissione inusuale per un regime che punta più che altro a mostrarsi muscolarmente (la scorsa settimana il presidente Bashar el Assad ancora parlava di riconquistare tutta il paese), e probabilmente dietro c’è una volontà politica per pressare gli americani; come dire, “vedete i danni che avete fatto con quel bombardamento?”. La dose in più, sui danni, l’ha messa il ministero degli Esteri russo: “Le azioni dei piloti della Coalizione sono al limite tra la negligenza e la connivenza con i terroristi dello Stato islamico”, scrive un comunicato da Mosca, riprendendo una retorica già calcata da Damasco: l’incidente è il frutto “dell’ostinato rifiuto” dell’America a collaborare in operazioni congiunte, continuano i russi.

LITI ALL’ONU

La portavoce della diplomazia russa, Maria Zakharova, è stata ancora più esplicita: “La Casa Bianca sta difendendo lo Stato islamico. Ora non ci possono essere dubbi su questo”. Le ha risposto Samantha Power, rappresentate americana alle Nazioni Unite la quale ha detto che Zakharova dovrebbe “essere imbarazzata” da certe affermazioni (prima aveva definito “cinica e ipocrita” la convocazione di una riunione del Consiglio di Sicurezza voluta dalla Russia dopo il raid sbagliato americano), poi il collega russo Vitaly Churkin ha chiuso una parte del cerchio, dicendo che in effetti Mosca per adesso non aveva “alcuna prova” della collusione degli americani con i terroristi, anche se l’attacco “potrebbe esserlo” e per questo “ha messo un grande punto interrogativo sul futuro della tregua”. Tra i due è scontro aperto: Churkin dice di “non aver mai visto una reazione così dura” da parte degli americani riferendosi alle parole della collega che accusava la Siria di compiere un massacro di civili con la spalla russa, Power dichiara che la Russia deve fermare “le acrobazie e i personalismi” (Mosca aveva chiesto la convocazione di una riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) e “pensare a ciò che conta”. E non è finita del tutto, perché il rappresentante siriano all’Onu Bashar Jafaari, ha dichiarato che il raid era deliberato e aveva lo scopo di minare il processo di pace in Siria. Siamo in clima Assemblea Generale, convocata domenica e in corso anche lunedì, e i presupposti per questo enorme dossier internazionale non sono ottimi (con l’ovvia osmosi su diversi altri, la Libia per esempio). Russi e americani sono ai ferri corti: Mosca calca le questioni propagandistiche che hanno creato la parte più diffusa dell’anti-americanismo e anti-occidentalismo (anche su questo il partito di governo Russia Unita, quello di Vladimir Putin domenica ha rivinto le elezioni per la Duma, la camera bassa).

PROSPETTIVE GRIGIE

Washington non si fida. Domenica alcune associazioni Ong che monitorano il conflitto – le stesse che sono in aperta polemica con l’Onu perché troppo aperto alle volontà del regime di Damasco (altro tassello per spiegare il clima della tregua) – hanno annunciato che alcuni jet dell’aviazione siriano hanno colpito Aleppo e ucciso diversi civili. È il primo bombardamento dall’inizio del cessate il fuoco, e per questo i responsabili delle violazioni sarebbero i russi, che nel sistema deciso dall’accordo avrebbero dovuto essere i cani da guardia dei governativi. Da Mosca l’accusa però segue lo stesso filo: il Cremlino dice che gli americani non sono in grado di influenzare le parti dell’opposizione che pensano di controllare (è la posizione espressa dal generale dello Stato maggiore russo Viktor Poznikhir, colui che due giorni fa annunciava la disponibilità russa a prolungare di altre 72 ore il cessate il fuoco). Tradotte le affermazioni dell’ufficiale significano che alcune delle milizie rientrate in un programma di sostegno militare progettato dagli Stati Uniti, sul campo fanno ciò che vogliono e spesso si alleano con fazioni estremiste per ragioni di utilità. Una realtà più volte segnalata, tanto che uno dei punti politici su cui pressa la Russia è proprio la necessità che Washington riesca a separare i ribelli buoni dagli islamisti. I russi devono tener fermi i siriani (e dunque anche gli alleati iraniani), gli americani i ribelli (e dunque anche le forze regionali che li sostengono, sauditi, turchi, eccetera): risultato, domenica il portavoce di Faylaq Al-Rahman, un gruppo affiliato ai moderati del Free Syrian Army (amici degli americani) ha annunciato che i suoi combattenti hanno distrutto un carro armato siriano, dopo che i lealisti avevano avanzato a Jobar, un’area di Damasco. Altre violazioni sono state segnalate in varie zone della Siria, e dovute a un primo passo fatto dai ribelli, altre opera dei governativi. Scrive Jackson Diehl sul Washington Post (in un editoriale che rappresenta un po’ la lettura critica del giornale), che in questo momento Putin è riuscito a trincerare il regime di Assad in un tregua che lo lascia in una posizione di forza ad Aleppo (nodo centrale della situazione) e con questo è riuscito pure a portare dalla sua parte una delle più grandi questioni sostenute dalla Russia: il problema non è Damasco, sono i ribelli, che violano il cessate il fuoco (lo fanno anche perché si sentono schiacciati), e ciò “rovescia la situazione geopolitica su Washington”.  Tutto “deriva dai problemi degli Stati Uniti ad affrontare una pista siriana: ancora non riescono a separare la parte cosiddetta sana dell’opposizione dagli elementi semi-criminali e terroristici”, ha detto Putin durante un viaggio in Kirghizistan.

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