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Che peccato. Pur al netto di tutte le attenuanti o scusanti che può meritare per le energie che è costretto a spendere nelle polemiche di politica interna spesso più speciose che fondate, come le accuse di dabbenaggine o autoritarismo appena rinnovategli ieri dall’ormai solito Massimo D’Alema dagli schermi de la 7 sulla riforma costituzionale in attesa di conferma referendaria, Matteo Renzi si è lasciata scappare un’occasione imperdibile per onorare e consolidare il posto che si è guadagnato dopo la Brexit nel cosiddetto direttorio dell’Unione Europea. Dove è stato ammesso dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dal presidente francese François Hollande dopo il referendum che ha messo la Gran Bretagna in uscita dalla stessa Unione.

Le notizie e le immagini, fotografiche e televisive, provenienti dalla Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan, con quelle centinaia di militari seminudi, ammanettati, seduti o stesi per terra, terribilmente simili quest’ultimi ai cadaveri ammassati dai nazisti nei campi di concentramento, avrebbero ben potuto indurre il giovane presidente del Consiglio a non farsi precedere nella protesta e nei moniti da Angela Merkel e persino dalla quasi ministra degli Esteri dell’Unione Federica Mogherini.

La protesta è per la macelleria metaforica e reale in corso in Turchia dopo il fallito colpo di Stato militare, se tale è stato davvero e non si è invece trattato di una finta, cioè dell’autogolpe di cui stanno parlando la stampa di mezzo mondo e gli oppositori di Erdogan riusciti fortunatamente a riparare all’estero già da anni. I moniti sono quelli rivolti al presidente turco a non ripristinare la minacciata pena di morte, che gli precluderebbe definitivamente la richiesta ammissione all’Unione Europea.

Per nulla intimidito, Erdogan ha reagito continuando a fare arrestare presunti golpisti, il cui destino giudiziario è già compromesso da altri arresti e purghe fra i magistrati, e annunciando che sarà ben felice di firmare la legge di ripristino della pena capitale se il Parlamento, dove dispone naturalmente della maggioranza, ne approverà la relativa legge. Ma al punto in cui sono rapidamente arrivate le cose in Turchia c’è da chiedersi che significato abbia ormai il ripristino formale della pena di morte, non importa con quali modalità fra il linciaggio, il colpo di pistola, la forca, la decapitazione o lo sgozzamento preferito dai miliziani del Califfato, vista la facilità con la quale Erdogan e i suoi aguzzini si sono già liberati e possono ancora liberarsi degli indesiderati.

Ce n’è già abbastanza per chiudere la pratica insanguinata dell’ammissione della Turchia alla Unione Europea, già troppo malandata di suo per sopravvivere all’arrivo di un socio così ingombrante e ambiguo. E mi piacerebbe che a dirlo fosse proprio il presidente del Consiglio italiano, l’esordiente del pur non formale direttorio dell’Unione, precedendo una volta tanto la Merkel e l’ammaccatissimo, silente Hollande.

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La paura delle ritorsioni di Erdogan è fasulla, per quel che vale la mia personale opinione, perché il presidente turco già fa quello che potrebbe minacciare di fare. Egli già pratica, per esempio, nonostante i lauti finanziamenti ottenuti dall’Unione Europea, una gestione a dir poco balorda del traffico dei profughi, prevalentemente siriani, in transito per il suo paese verso l’Occidente. E già partecipa in modo tutto suo alla Nato, parlando e trattando gli Stati Uniti peggio di un nemico. Non a caso in America, chiunque sia destinato a vincere le elezioni presidenziali di novembre, si stanno preparando agli inevitabili conti con questo particolarissimo alleato. E sta maturando la convinzione, al di là di certe apparenze di segno ancora contrario, che per venire veramente e finalmente a capo della guerra al Califfato –sì, la guerra- sia più utile una collaborazione con la Russia di Putin che con la Turchia di Erdogan.

Né Putin mi sembra francamente un uomo così ingenuo da fidarsi di Erdogan, che gli ha già chiesto udienza dopo avergli abbattuto un aereo reduce da bombardamenti su postazioni siriane del Califfato, più di quanto se ne siano fidati fino all’altro ieri alla Casa Bianca.

Il presidente turco potrà pur essere riuscito a rafforzare il suo potere interno sfuggendo al tentativo di colpo di Stato militare e alimentando il fanatismo per niente laico dei suoi sostenitori, che certamente non mancano, ma ben difficilmente potrà contare sul rafforzamento del suo prestigio all’estero. Almeno nei paesi dove ancora si pratica per fortuna una vera democrazia.

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La democrazia, purtroppo anche per il mio carissimo amico Paolo Mieli, che ne ha appena scritto in un editoriale per il Corriere della Sera occupandosi proprio delle vicende turche, non è solo quella legittimata dalle urne.

Ancora più importante delle urne, nelle quali è capitato di vincere in passato anche a personaggi come Adolf Hitler e Benito Mussolini, è l’esercizio democratico del potere, il rispetto delle minoranze, il riconoscimento del diritto al dissenso, la tutela della libertà di stampa e via dicendo.

E’ proprio sicuro Paolo Mieli che tutto questo sia stato fatto davvero da Erdogan dopo avere vinto le elezioni, per cui egli ha potuto scrivere, criticando il lungo silenzio delle cancellerie occidentali nella notte del fallito colpo di Stato in Turchia, che “un governo eletto democraticamente deve essere difeso sempre e comunque”, sino a quando a rovesciarlo non saranno gli elettori? Se ne sarà data davvero loro l’occasione, mi permetto di aggiungere.

Purtroppo questa volta mi sono riconosciuto di più nel commento dell’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, al quale le notizie e le immagini provenienti della Turchia hanno ricordato la Cina del comunismo pre e post-capitalistico, l’Unione Sovietica di Stalin e la Spagna di Franco. Ma anche il Cile di Pinochet, direi.

Tutti gli strani silenzi sulle cose turche di Erdogan

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