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Non è solo Larry Summers, economista di Harvard, nonché ex sottosegretario al Tesoro di Bill Clinton a temere la “stagnazione secolare”. Il recente libro di Robert J. Gordon (The rise and Fall of American growth), pur partendo da premesse diverse, giunge più o meno alle stesse conclusioni. I grandi driver che, in passato, avevano creato le “società opulente” sembrano non aver più la stessa forza. Il grande motore dell’incremento demografico si è arrestato, soprattutto a danno dei “bianchi”. Come mostrano le grandi paure alimentate da Donald Trump, negli Stati Uniti, e la marea montante che, con l’immigrazione e le guerre, circonda la vecchia Europa. Ma è mutato anche il tipo di sviluppo tecnologico: nulla a che vedere con i cambiamenti non solo economici, indotti in passato da invenzioni come il motore a scoppio, l’energia elettrica e via dicendo. Furono questi gli elementi fondamentali che segnarono il passaggio da una società prevalente agricola ad una industriale, con tutto ciò che questo passaggio ha significato.

Recentemente anche Romano Prodi ha espresso preoccupazione analoghe, ponendo al centro della sua riflessione la necessità di una maggiore giustizia sociale. Non solo come imperativo etico, ma come strumento per colmare, seppure in parte, le conseguenze del gap demografico. Immigrati e poveri da supportare per sviluppare quei consumi, che il mancato sviluppo demografico non riesce più a garantire. E’ realistico tutto ciò? E’ pensabile il dover ricorrere ad una generalizzazione del cosiddetto “salario di cittadinanza” per combattere il male del secolo? Se non ci fosse il macigno del debito pubblico, non solo italiano, ma europeo; questa poteva essere una strada, seppure in parte, percorribile. Integrando, semmai, l’elargizione del Principe con impegni precisi, per esempio in termini di formazione, da parte dei possibili beneficiari. Ma il rischio di “una crisi fiscale dello Stato” (James O’ Connor)  – vecchio tema degli anni ’70 – rende del tutto problematica questa possibile soluzione. Ed allora?

Bisogna rimanere con i piedi per terra, prendendo atto del forte ridimensionamento che sta intervenendo nella logica della globalizzazione. La sua ulteriore espansione, con il congelamento del Ttip e del Ceta (il trattato interatlantico e quello canadese), è stata fortemente ritardata, facendo venir meno uno di quei grimaldelli destinato ad accentuare gli squilibri tra il Nord e il Sud del Mondo; tra l’Est ed l’Ovest. L’Europa, pertanto, in qualche misura si è protetta, grazie anche a Brexit, che ridurrà la pressione della grande finanza sulla stessa Unione europea. Esiste pertanto uno spazio di manovra che può essere utilizzato per governare il fenomeno evitando ulteriori divaricazione, che produrrebbero effetti politici destabilizzanti.

L’Europa deve ridurre il suo avanzo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, che ammonta ad oltre il 3 per cento del PIL. Continuare in questa direzione non ha senso. Si accumulano infatti risorse finanziarie – il corrispettivo dei surplus commerciali – che non possono trovare impiego. Visto che i bond emessi, a livello internazionale, ammontano a più di 10 mila miliardi e garantiscono tassi solo negativi. Meglio quindi realizzare quegli investimenti pubblici, riducendo il surplus verso l’estero, che sono indispensabili sia per accrescere, in prospettiva, la competitività europea. Sia per attuare politiche redistributive a favore dei meno abbienti, legando tuttavia l’erogazione di risorse a precisi impegni da parte di questi ultimi: sia sul fronte della formazione che sulla loro disponibilità a forme di impiego successivo, una volta terminato quella sorta di “anno sabatico”.

Aumenterà comunque il debito complessivo? Certamente, ma sarà compensato da una crescita del PIL, che ne ridurrà l’impatto. Visto che l’alternativa è comunque data dal suo aumento quale conseguenza di un ristagno più o meno secolare.

babele politica

Come evitare in Europa la stagnazione secolare

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