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Gli Stati Uniti hanno definito “inaccettabili” i combattimenti tra turchi (esercito regolare e ribelli alleati) e curdi al nord della Siria. Washington si trova in una posizione imbarazzante, perché ha da poco riallacciato il rapporto con Ankara avallando l’operazione sul confine siriano “Scudo dell’Eufrate” (dopo giorni di tensioni conseguenti all’atteggiamento algido tenuto dagli americani sul golpe fallito del 15 luglio) ed è costretta a bilanciare lo scontro con le milizie dell’Ypg, considerate dalla Turchia in cima alla lista dei nemici, insieme ai cugini del Pkk, e invece ritenute dagli statunitensi gli alleati più fedeli per combattere lo Stato islamico (tanto che circa duecento forze speciali americane le stanno aiutando nelle missioni contro il Califfo nel nord siriano). “Profonda preoccupazione” ha infatti espresso su Twitter Brett McGurk, l’inviato speciale della Casa Bianca alla Coalizione Internazionale anti-IS, che ha chiesto anche di aprire i canali di comunicazione tra i combattenti, segno che non c’è coordinamento con le mosse turche.

Le organizzazioni che controllano la crisi siriana denunciano che soltanto domenica le azioni militari turche, terrestri e aeree, hanno prodotto 35 morti tra i civili, 70 nel fine settimana (sono numeri non verificati al momento). Sempre domenica un soldato turco è stato ucciso, e altri tre feriti, da un missile anticarro sparato dai miliziani dell’Ypg, che hanno in questo modo messo fuori uso due dei quaranta tank schierati da Ankara.

Scontri si sono aperti negli ultimi due giorni, dopo che le forze turche si sono spinte a Jarablus, città di confine dove poco prima dell’alba di mercoledì scorso hanno avviato una campagna che aveva come obiettivo – riuscito, apparentemente – scacciare gli uomini del Califfato da quello che era l’ultimo punto di controllo rimasto in mano all’IS nell’area e dove nei giorni scorsi si erano diretti (protetti da scudi umani per salvaguardare il convoglio) leader e combattenti baghdadisti che i caccia americani e le forze speciali a terra, in appoggio a un raggruppamento ribelle che va sotto il nome politico di Syrian Democratic Force, di cui i curdi sono la maggioranza, avevano sopraffatto e messo in fugo da Manbij, un’altra delle tante città di confine liberate dalle Ypg&Co. Ma l’intento esplicitato via via nei giorni della missione Scudo non è solo quello di scacciare l’IS, ma c’è un goal più ampio, ossia ripulire il confine “da tutte le forze terroristiche”, come recitano i messaggi di Ankara, e questo vuol dire che la Turchia ha intenzione di creare una zona cuscinetto interdetta sia allo Stato islamico che ai curdi siriani (estensione: Manbij-Jarablus); per Ankara le Ypg sono considerati alla stregua del Pkk, un’organizzazione terroristica.

Il progetto turco stride con la strategia americana, è evidente, anche perché Ankara continua a ripetere (da anni in realtà) che la red lines da non superare è l’Eufrate, e non vuole gruppi combattenti non alleati ad ovest del fiume, ma per esempio Mambij è qualche decina di chilometri oltre la sponda occidentale dell’alveo, e là i curdi li hanno messi gli americani (per non parlare del cantone di Afrin, che addirittura si affaccia sul Mediterraneo e che i curdi vorrebbero ricongiungere con Jarablus per avere una striscia di controllo longitudinale al nord della Siria). È stato Joe Biden, il vice presidente americano, ad annunciare durante la visita ad Ankara della scorsa settimana, che il Pentagono aveva chiesto agli alleati delle Sdf di ritirarsi a est del corso d’acqua. Ora i portavoce dei ribelli dicono di aver eseguito gli ordini (le Sdf come i curdi sanno che senza l’appoggio americano sarebbero molto vulnerabili sia alle controffensive dell’IS, sia alle pressioni turche, e dunque eseguono), ma denunciano che la questione della linea rossa è stata solo un pretesto usato da Ankara per far entrare i carri armati in Siria. Da Manbij, però, le autorità locali arabe (come la maggioranza della cittadinanza) a cui dovrebbe essere lasciata l’amministrazione cittadina, sostengono che in realtà i curdi non se ne sono andati.

La Turchia cerca di limitare le conquiste territoriali curde in Siria, perché sa che prima o poi quel territorio sarà rivendicato come provincia autonoma dalla minoranza siriana, e teme che possa essere un ulteriore pretesto (anche di diritto) per situazioni analoghe interne. Osservatore inerme della situazione, Bashar el Assad, che non ama le pretese territoriali curde tanto quanto detesta la presenza turca all’interno dei propri confini, ma non può che aspettare per evitare di finire in mezzo a vicende ancora più complicate; anche perché Ankara gode dell’appoggio tacito della Russia, dopo che le relazioni tra i due paesi si sono riaperte.

Il New York Times scrive che questa è “una nuova escalation che complica ulteriormente il coinvolgimento americano nella guerra siriana”. Il Wall Street Journal dice che non è chiara la posizione che la Coalizione, di cui la Turchia è membro, potrebbe prendere sulla vicenda. Uno dei grossi problemi, che si era presentato già a inizio anno ad Aleppo: a combattere insieme ai militari turchi ci sono un migliaio di ribelli di gruppi riconducibili quasi tutti (Sham Legion, Syrian Turkmen Brigades, Levant Front) al conglomerato del Free Syrian Army, che ha ricevuto aiuti dalla Cia e da altre agenzie di intelligence occidentali, contro ci sono le Ypg, che ricevono il supporto operativo da parte del Pentagono. (Ossia, detto con un’iperbole, in Siria Cia e Pentagono si stanno prendendo a cannonate attraverso i rispettivi gruppi collegati). Altro enorme problema: è questa mancanza di strategia, complicata dall’instabilità dei partner locali, ad aver fatto progredire lo Stato islamico.

Che succede al confine siriano tra Turchia e Stati Uniti sui curdi?

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