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“Potremmo anche impedire di passare agli americani” nello stretto di Hormuz, ha detto ai media iraniani il vice comandane dei Guardiani della rivoluzione, il generale Hossein Salami: una dichiarazione che ha seguito di pochi giorni le critiche espresse dalla Guida suprema Ali Khamenei sulle attività degli Stati Uniti nel Golfo Persico, “troppo intense”.

È chiaro che si tratta di sparate propagandistiche, perché l’Iran ha tutto l’interesse nel mantenere aperte quelle rotte anche alle navi americane (dall’altra parte c’è l’aperto Oman), visto che sono le linee nautiche per cui passa circa un terzo di tutto il petrolio commercializzato nel mondo. Ma forse è anche per questa nuova dimensione internazionale, frutto del Nuke Deal e del sollevamento delle sanzioni, che la sfera teocratica di Teheran, espressione della linea più conservatrice, sta tornando assertiva. In palio c’è anche il consenso politico interno, da tenere e mantenere a suon di propaganda.

Il Persico è da anni uno dei luoghi in cui si dipana la geopolitica mondiale, e dove spionaggio e provocazioni sono il pasto quotidiano. Gli americani sono presenti con imbarcazioni strategiche e navette leggere, pattugliano l’area, registrano gli spostamenti delle controparti iraniane, russe, cinesi, imbastiscono interessi con gli alleati regionali (nemici esistenziali degli iraniani).

Nonostante la firma dell’accordo sul nucleare e la riqualificazione diplomatica (e commerciale) iraniana, i rapporti dell’Occidente con Teheran continuano ad essere sensibili. Il golfo Persico è uno dei luoghi in cui queste sensibilità emergono più facilmente.

“Gli americani dovrebbero imparare dai fatti della storia recente” ha detto Salami, facendo riferimento con ogni probabilità a quella che per qualche ora è stata la più delicata crisi degli ultimi tempi, l’arresto di dieci dieci marinai americani da parte dei Guardiani. Era gennaio, i due barchini statunitensi erano diretti in Bahrein, partiti dal Kuwait ed intercettati nei pressi di Farsi Island, una base militare iraniana, e per questo accusati di compiere operazioni di spionaggio. La detenzione durò solo una nottata, la situazione fu gestita con freddezza da entrambe le parti (anche se gli iraniani non mancarono di diffondere immagini umilianti dei marines, inginocchiati, dentro la loro stessa nave), ma è ovvio che s’è rischiato la crisi diplomatica. Come quando, pochi giorni prima dell’arresto, due imbarcazioni iraniane avevano aperto live-fire (cioè, proiettili armati) in direzione del gruppo da battaglia della “Harry Truman”. Sempre a gennaio l’esercito iraniano aveva diffuso le immagini riprese da un drone fatto volare sopra il ponte della portaerei nucleare americana. La Truman si trova ancora in Medio Oriente: in questi giorni sta doppiando Aden. Il segretario alla Difesa Ash Carter ha deciso di estendere la missione del gruppo di attacco nell’ambito della guerra allo Stato islamico, e forse dietro c’è anche una volontà di dimostrare potenza.

 

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