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C’è qualcosa nell’aria di diverso in questo Natale. Uno stato d’animo, un sentimento non facilmente concettualizzabile, che ogni nostro sforzo di “normalità” riesce a mala pena a farci dimenticare o a dissimulare. Non è tanto e non è solo la paura per qualcosa di concreto che potrebbe accadere proprio in questi giorni in una delle nostre capitali, così come è già accaduto due volte in questo 2015 a Parigi. Non è nemmeno solamente l’angoscia dell’indeterminato, dall’imprevedibile. È forse la consapevolezza che questa volta l’attacco viene portato al cuore stesso della nostra civiltà. E quindi anche del Natale, che ne è forse il simbolo più importante.

Un attacco radicale a cui deve corrispondere, non può non corrispondere, almeno da parte degli uomini di cultura, una riflessione altrettanto radicale. È come se il terrorismo jiahidista ci aiutasse a riconoscerci finalmente: a non vivere più, noi occidentali, nell’oblio di noi stessi. In quell’oblio che nasce dalla routine, dalla sicurezza ovattata in cui fino a ieri erano avvolte le nostre vite, ma anche dall’oblio programmatico che è figlio dalle false ideologie che noi stessi col tempo abbiamo prodotto. E che hanno come occluso la nostra mente.

All’inizio una di queste ideologie fu indubbiamente il laicismo, cioè la perversione della giusta esigenza di tener separate la politica e la religione (quale messaggio è più cristiano di questo?). Una perversione che in fondo finiva per sostituire agli aspetti di trascendenza che si erano accumulati nei secoli attorno al cristianesimo e alla sua Chiesa non la concreta immanenza del Dio incarnatosi, cioè Cristo, ma la nuova Trascendenza di una Ragione onnivora, spietata, emancipatasi forse da tutti i dogmi ma diventata essa stessa un Dogma indiscutibile, l’ultimo e più intollerante di tutti. Vi ricordate con che veemenza, e in che grande numero, gli intellettuali si opposero ad includere nel progetto di Costituzione europea il richiamo alle “radici cristiane” della nostra civiltà? Era solo ieri.

Poi arrivò, altro figlio degenere della mentalità razionalista, importato dai campus americani più che dalla rive gauche parigina, il flagello dell’ideologia multiculturalista, con la sua falsa idea di rispetto. Da accordare a tutto e a tutti: a prescindere. Anche a chi al nostro rispetto era ed è poco interessato, o al massimo vuole servirsene strumentalmente per raggiungere i propri fini. Il multiculturalismo è un flagello perché non supera la prova del paradosso popperiano della libertà: non si può essere liberali e tolleranti con chi è intollerante, ne va di mezzo la nostra e tutta la civiltà.

Certo, Cristo ci ha insegnato ad amare il prossimo, tutto, come noi stessi, a essere misericordiosi, a porgere l’altra guancia. Ma ci ha anche detto che bisogna essere candidi come le colombe e astuti come i serpenti: i buoni sentimenti, in sostanza, per realizzarsi devono sostanziarsi di prudenza, sagacia, persino di un accorto uso della forza. La nostra civiltà, cristiana fin nelle midolla, non eccede forse nel “porgere l’altra guancia”? E lo fa per convinzione o anche perché non crede più a se stessa? E come riattivare quella fiammella che ci porta a credere in noi stessi, a non annullarci nell’altro? Soprattutto se il noi stessi è universalizzabile e razionale più di ogni altra concepibile identità.

Il cristianesimo, a ben vedere, è stato ed è la religione dell’uomo per eccellenza anche perché, nella sua bimillenaria storia, ha evitato i facili riduzionismi, ha saputo conservare la tensione fra i contrari che sostanziano la nostra vita. Ha compreso e ha perdonato gli erranti, ma ha anche saputo combattere l’errore quando è stato il caso. Credere in una verità umana, calata nella storia, comprensiva degli altri, è comunque credere nella verità: equiparare tutto e tutti come fa il relativismo imperante nelle nostre società non è forse un tradimento dell’uomo, dei generali valori umani, prima che di noi stessi? E come si può essere pluralisti, per dirla con Isaiah Berlin, senza essere nel contempo monisti: senza cioè aprie tutte porte ma esigendo che nessuno le chiuda e anche gli altri facciano lo stesso?

Domande, tante domande. Ma ognuno deve fare la propria parte, se vogliamo difendere quel che siamo. E l’uomo di cultura, il filosofo, prima di dare risposte (a cui è deputato non in modo migliore o privilegiato rispetto agli altri) deve saper correttamente porre le giuste domande. Anche e soprattutto a Natale. Buone feste!

Serve una risposta radicale a chi fa la guerra pure al Natale

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