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Riceviamo e pubblichiamo

In Libia l’Isis (o Daesh) ha preso il controllo di Sabrata, un patrimonio dell’umanità dell’Unesco a settanta chilometri a ovest di Tripoli.
È vero che, come sostiene il ministro degli Esteri russo Serghej Lavrov, il Califfato tende ad esagerare i suoi successi, ma in Libia gli uomini di Abu Bakr al-Baghdadi ci sono, non vi è dubbio.
E la linea russa di costruire una coalizione ampia contro la jihad “della spada” è certamente giusta, ma, per dirla con una poesia di Costantino Kavafis, “i barbari sono già alle porte”, e i tempi diplomatici necessari a costruire una grande unità come avvenne per sconfiggere l’Asse, sono inevitabilmente troppo lunghi per non favorire, anche indirettamente il Califfato.

Intanto, le rappresentanze politiche libiche riunite a Roma al Rome Med Forum 2015 l’11 dicembre scorso, Habib Essid, ministro tunisino degli esteri, ha sostenuto l’accordo dell’Onu per la formazione di un governo di unità nazionale libico.
Ovvio, se non si stabilizza subito la situazione tra Fezzan, Cirenaica e Tripolitania, la Tunisia vede giustamente una minaccia alla sua sicurezza nazionale. Che è anche la nostra, dato che Tunisi è il vero “dente” strategico per la penetrazione della Penisola.

Meglio sarebbe stato per il governo italiano, a mio parere, evitare di propalare progetti futuri per la Libia e farsi carico invece di costruire una coalizione militare per arrivare in Libia con il consenso di entrambi i governi locali, per un fine preciso e tutt’altro che pacifico.
Ovvero quello estirpare le aree della jihad nel più breve tempo possibile, chiedendo peraltro il sostegno strategico e logistico di Tunisia, Algeria e Egitto, tutti paesi nostri amici e direttamente interessati alla eliminazione della jihad della spada.

Se quindi la Tunisia vuole l’attuazione della proposta dell’Onu gestita dal nuovo, e più efficace del predecessore Bernardino León, rappresentante Onu Martin Kobler, allora diminuisce la probabilità che vada in porto la proposta, fatta da alcuni gruppi dei due parlamenti libici, di un governo di unità nazionale senza l’implementazione della piattaforma Onu. Ma perché i libici dovrebbero accettare la linea dell’Unsmil?
L’accordo non prevede alcuna trattativa, che peraltro non è avvenuta in Tunisia finora, tra l’Onu e le tante realtà politiche e tribali che magari sono armate e si fanno guerra tra di loro, ma non sono affatto riconducibili all’Isis.
Per esempio i Warfalla, oppure l’unione, segnalata da alcuni analisti, tra gruppi di razza nera del meridione libico e le armate filogheddafiane, che vogliono “liberare la Libia dalle forze Nato”, per dirla con la loro propaganda.

La loro base è Sabha, e ancora non è chiaro se alcuni attacchi al governo di Ali Zeidan siano stati portati dai jihadisti o dalla guerriglia “verde” postgheddafiana.
Le tribù di razza nera, i Tawergha e i Toubou, sono state fatte oggetto di azioni di “pulizia etnica” da parte delle milizie arabe e non hanno alcuna rappresentanza nei due governi più o meno legittimi.
Toubou e Tuareg vogliono controllare direttamente l’area di El-Sharara, nel Fezzan, dove sono situati anche importanti pozzi petroliferi. Perché, se parliamo di legittimità, entrambi sono piuttosto deboli.

Poi tutte le armate “indipendenti”, che sono circa 40, che non sono state attivate per discutere l’accordo Unsmil e che non l’accetteranno fino a quando non lo troveranno utile, anche dal punto di vista economico.
Non vi è poi, nell’accordo Onu recentemente sottoscritto, una nota esplicita sulla sicurezza dell’area. Nell’ultimo documento presente sul sito dell’Unsmil, si fa riferimento alla buona volontà dei membri dei due governi e del popolo “per desistere da ogni tentativo e manovra tali da bloccare il processo democratico e mettere in pericolo i risultati del dialogo”.
La buona volontà in politica, soprattutto in quella estera, si sa che posto ha. “Meglio essere pazzo per contro proprio, che savio per volontà altrui”, come diceva Nietzsche.

Quindi, se l’Unsmil non provvederà concretamente, con un accordo di carattere militare, alla sicurezza del territorio e alla regolarità del processo politico, nel quale debbono essere inseriti tutti i gruppi tribali non jihadisti, Tobruk e Tripoli continueranno a farsi la guerra per interposta fazione.
Ed è ovvio che sia così: il lungo vuoto di potere, favorito dall’inerzia e, talvolta, so di usare una parola pesante, stupidità degli occidentali che hanno sconsideratamente attaccato il regime gheddafiano per portarci via l’Eni, ha fatto sì che ogni fazione dei due governi sia il referente libico di poteri esterni: Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Turchia.

O si studia un progetto di stabilizzazione della Libia parlando e trattando, duramente, con questi attori o non si arriva a niente, solo ad una pace di facciata tra i due governi “legittimi” che continueranno a separare, per i loro fini, le tribù, i gruppi etnici, le milizie.
Certo, la Libia è, nei progetti sauditi, una pistola puntata su una Europa che non volesse sostenere i progetti di Riyadh nel Grande Medio Oriente. Petroliferi e non.
Per la Turchia, la Libia è la conquista di una profondità strategica marittima nel Mediterraneo che è essenziale alla sua espansione neo-ottomana in Asia Centrale; e Ankara qui non si fida affatto dei suoi alleati della Nato.
Il Qatar gioca il suo gioco di contrasto con i sauditi, che ha fondamenti sia geoeconomici sia ideologici: l’Emirato è un punto di riferimento della Fratellanza Musulmana che ha generato anticamente quei gruppi che si sono fusi nel partito turco oggi al potere, l’Akp di Erdogan ed è proibitissima in Arabia Saudita.

E la Fratellanza vuol dire anche una presa efficace su tutto il ciclo della finanza islamica, dove i “Fratelli” sono ben rappresentati.
L’Egitto, è ovvio, non vuole infezioni jihadiste ai suoi confini e, soprattutto, non vuole un potere islamista in Libia tale da radicalizzare i tantissimi lavoratori egiziani presenti in quel Paese.
Quindi, rapida programmazione, in ambito Nato e Onu, di una Forza di Stabilizzazione libica, che però sia dotata di Regole d’Ingaggio più adatte alla guerra che non agli incontri per il the, come erano le prime Roe per l’Afghanistan, Forza di Stabilizzazione nella quale l’Italia abbia il ruolo che merita.
In secondo luogo, trattare seriamente con tutti gli attori non jihadisti libici, anche per limitare lo strapotere, non sappiamo quanto elettoralmente legittimo, dei due governi.

Usare anche quelli che ora sono stati esclusi dalle trattative di Shikrat, in Marocco, per equilibrare la politica interna libica e assicurarsi che nessuno rompa gli accordi.
Smetterla, infine, di pensare che la crisi libica sia una questione regionale, perché coinvolge tutto l’assetto futuro del Mediterraneo e riguarda la sicurezza interna ed esterna del nostro Paese.

Multilateralismo, postura e minaccia militare credibili, controllo attento del mare, dato che i rifornimenti all’Isis arrivano alla Sirte per nave.
Non so dire se il diritto internazionale permetta o meno una azione militare contro un naviglio che va a rifornire il Califfato libico, ma ricordo che, come diceva Mao Zedong, il potere siede sulle punte dei fucili.

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