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Può stupire, dati i precedenti di ben più lunga durata, la rapidità con la quale è stato politicamente e mediaticamente chiuso l’ultimo caso di Adriano Sofri, invitato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando a partecipare agli “Stati generali”, addirittura, della riforma carceraria.

A facilitare lo spegnimento praticamente immediato delle polemiche ha di certo contribuito la saggia e spontanea, per quanto risentita, decisione dell’interessato di reagire già alle prime proteste rinunciando alla consulenza offertagli dal Guardasigilli. Che lo avrebbe voluto, in particolare, al “tavolo” dedicato all’istruzione, alla cultura e allo sport nel nuovo ordinamento penitenziario.

Ma ancor più ha contribuito il silenzio che si è imposto sulla vicenda il presidente del Consiglio resistendo ad una doppia, e opposta, tentazione avvertita davanti ai primi dispacci d’agenzia. Prima la tentazione di dissociarsi dall’idea del suo ministro e poi quella di coprirlo a modo suo, esprimendo la convinzione che tutti possano sbagliare, essendosi lui stesso assunto in più di un’occasione la responsabilità di alcune decisioni adottate e poi ritirate di fronte alle critiche. Esemplare fu la vicenda natalizia del decreto sulla depenalizzazione delle evasioni sino al 3 per cento del reddito dichiarato: un limite di cui avrebbe potuto beneficiare anche Silvio Berlusconi, per quanto già condannato in via definitiva per frode fiscale.

Con il ministro Orlando il capo del governo non ha forse voluto esporsi in alcun modo anche per non agitare più di quanto già non lo sia, fra abbandoni, proteste e minacce, la situazione interna del Partito Democratico. D’altronde, il caso Sofri può ben essere considerato a Palazzo Chigi una quisquilia di fronte ai tanti i problemi con i quali Renzi è alle prese: dall’immigrazione alla scuola, dalla ricerca dei fondi necessari per rispettare, pur senza dovere pagare gli arretrati, la sentenza della Corte Costituzionale contro il blocco degli stipendi degli statali alla doverosa ma differita sospensione di Vincenzo De Luca da governatore della Campania, per dargli il tempo di nominare un vice di fiducia.

Non parliamo poi dei rapporti con il Campidoglio, dove il sindaco Ignazio Marino si è asserragliato paragonandosi ad una “foresta che cresce senza fare rumore”, a dispetto della volontà di Renzi di romperne il silenzio abbattendo il sindaco come un albero minacciato dall’onda d’urto della vicenda giudiziaria di Mafia Capitale. E meno male che Marino, sempre ispirandosi al leggendario Lao Tse, non si è paragonato all’acqua, che “si adatta” come nient’altro al mondo ma che tuttavia, quando cade persistente sul suolo diventa “più forte” di ogni altro elemento. Lo sanno bene i romani quando guidano l’auto o camminano a piedi sotto una pioggia persistente, appunto, sulle strade malmesse e abbandonate della loro città.

A rianimare le polemiche sul ruolo che il ministro della Giustizia avrebbe voluto assegnare all’ex capo di Lotta Continua per la competenza procuratasi in carcere dopo la condanna come mandante dell’assassinio del commissario di Polizia Luigi Calabresi, nel 1972, non sono riusciti neppure i magistrati Stefano Amore, Giuseppe Corasaniti e Fabio Massimo Gallo. Che per protesta contro Orlando hanno annunciato la rinuncia a partecipare ad un convegno sindacale sui “servitori dello Stato”, offesi – secondo loro – dal tentativo di usare l’ex detenuto Sofri come consulente.

Fra i magistrati, d’altronde, non ne mancano di tanto generosi nell’applicazione delle leggi da consentire a condannati all’ergastolo per gravi fatti di terrorismo da vivere da tempo in tranquillissima libertà, per niente pentiti, e magari  lavorando, com’è accaduto a Giovanni Senzani, persino in un centro toscano di “documentazione della cultura della legalità democratica”.

Adriano Sofri, il caso chiuso e i silenzi di Renzi

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