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Ormai sta diventando uno scontro tra l’Unione europea e Alexis Tsipras. La Ue ha invitato i greci a votare sì (“Un azzardo concordato”, lo ha definito il Financial Times); il governo di Atene chiede un no. E gli elettori? L’immagine che arriva dai mass media è di un ampio fronte contrario alle imposizioni degli burocrati. La domanda alla quale rispondere è complicata, vengono citati i titoli delle proposte della Ue. Il testo pubblicato da Bruxelles, pieno di tecnicalità, è lungo dieci pagine web in formato largo. Dunque, è chiaro a tutti che la posta in gioco non è se aumentare e di quanto l’età pensionabile o l’Iva sui bed & breakfast delle Cicladi, ma se accettare le regole del gioco.

Syriza ha fatto saltare il tavolo, ma (circo mediatico permettendo) non è detto che la sua scelta risponda al volere dei greci. Proprio il fatto che Angela Merkel abbia messo sul tavolo tutta la posta, cioè la possibilità di spezzare non l’euro, ma l’Unione europea, può far pendere la bilancia verso il sì. Perché allo stato attuale il 60% dei greci è favorevole a restare nell’euro e l’80% nella Ue. E il mandato affidato in gennaio al governo era di spuntare il massimo possibile senza uscire dall’eurozona.

La posizione di Tsipras appare ambigua, anzi schizofrenica. Dopo aver tuonato contro la dittatura di Bruxelles, ha inviato una lettera melliflua nella quale chiede ancora tempo, ricorda che la consultazione popolare riguarda le proposte della trojka (oggi tre istituzioni) e non l’euro al cui mantenimento il suo governo resta “fortemente impegnato”. Insomma, un colpo al cerchio domestico (un cerchio di parole infuocate), e uno alla botte europea che vorrebbe sempre piena.

Perché è vero che la trojka ha commesso tanti errori (soprattutto nel 2010, ormai lo ha ammesso anche Strauss-Kahn che allora guidava il Fmi), ma è anche vero che i governi dell’Eurolandia più la Bce si sono accollati ormai da oltre due anni l’intero debito greco. Lo hanno fatto pro quota. Ciò vuol dire che l’Italia è il terzo creditore. L’esposizione italiana totale ammonta a 65 miliardi (non sono bruscolini). Poi è arrivato Tsipras e ha detto non vi pago più.

La sinistra radicale greca vuol governare con i soldi nostri? Anzi, vuol fare la rivoluzione con quattrini degli altrui? E’ successo con quasi tutte le rivoluzioni, compresa quella bolscevica pagata con i marchi tedeschi. Sono le riforme che si fanno con i quattrini dei cittadini contribuenti. E le riforme Syriza, non a caso, non le vuole.

In realtà finora non ha fatto molto né di sinistra né di destra. Per cinque mesi ha cianciato, ha ciurlato nel manico, ha tenuto comizi ad Atene e ha parlato con lingua biforcuta a Bruxelles. Intanto i ricchi greci hanno portato i loro quattrini all’estero, indisturbati. Gli armatori hanno tenuto i glutei al caldo, sotto l’ala di Panos Kammenos alleato chiave di Tsipras e già ministro della marina (sic!) con Karamanlis, l’uomo della bolla olimpica che aprì la strada al collasso economico. Gli albergatori non hanno pagato le tasse e i dipendenti pubblici hanno preso la pensione al più presto possibile, finché c’è. E’ vero, la Grecia ha sofferto moltissimo in termini di reddito, occupazione, produzione, tenore di vita. Ma non ha riformato il suo sistema economico clientelare e assistenzialista. Anche questo è un dato di fatto. Alla faccia della sinistra e della rivoluzione.

I greci sono stati illusi da Tsipras anche sulle alleanze internazionali. L’unica amicizia (pelosa) in Europa viene dai lepenisti e dagli euroscettici di sinistra. Ha detto che Obama lo appoggia: è vero purché resti nell’euro (messaggio che vale per la Merkel ma ancor più per Syriza). Ha proclamato il sostegno della Cina la quale mette le mani avanti e specifica che val la pena investire se Atene sta nella moneta unica. E’ andato da Putin con il cappello in mano e zar Vladimir, che è ben più scafato, non ha scucito un rublo, ma lo ha manovrato come un pupazzo per far casino contro l’Europa delle sanzioni.

Se vince il sì non saranno rose e fiori. Tsipras dovrà indire nuove elezioni, a meno di non lasciare il governo in mano al governatore della banca centrale, come già si dice (una soluzione tecnocratica non molto robusta in termini di consenso, lo ha dimostrato l’Italia con il governo Monti). Dunque ci saranno altri mesi di fibrillazioni e psicodrammi. Ma la Bce allenterà il rubinetto e rifinanzierà le banche per accompagnare la transizione.

Se vince il no, a quel punto si aprono due scenari. Il primo è che Tsipras ribadisca la sua volontà di mantenere l’euro e torni a negoziare direttamente con il consiglio europeo per raggiungere un accordo politico al quale poi seguiranno le salmerie tecniche. Il secondo è che prevalga l’atteggiamento alla Juncker il quale si sente personalmente offeso dal referendum, aprendo la strada all’espulsione della Grecia non dall’euro, ma dall’Unione europea per violazione dei trattati. Sarebbe lo scenario fine di mondo, o meglio fine d’Europa, al quale nessuno vuole arrivare. Lo ha detto chiaramente Obama alla Merkel.

Ci sarebbe una terza via: la soluzione cipriota, cioè un periodo intermedio in cui viene rinegoziato sia il debito sia il programma, con un controllo dei capitali e di fatto un doppio regime monetario che consenta di ripulire i bilanci delle banche, delle famiglie e delle imprese. Noi creditori (cioè intendo anche noi contribuenti italiani) finiremmo per perdere dei soldi, ma il costo verrebbe spalmato su molti anni, senza un aggravio immediato e con la certezza di essersi tolti il dente cariato.

E’ il piano di riserva, chiamiamolo il piano C, che richiede buon senso, pragmatismo, nervi saldi e capacità negoziale, quasi da sindacalista d’antan o da eurocrate navigato, di quelli che hanno passato le notti a disquisire sulle quote agricole. In fondo anche l’accordo di Maastricht stava per fallire all’ultimo minuto, quando Kohl mise sul piatto il riconoscimento della Croazia che c’entrava come i cavoli a merenda con l’unione monetaria. Per non parlare della Banca centrale europea la cui nascita era bloccata perché Chirac voleva a tutti i costi che la guidasse un francese e il candidato, Jean-Claude Trichet, era sotto processo (la Severino non ha inventato nulla).

Juncker conosce bene queste storie perché le ha vissute, ma si è fatto prendere la mano da giovanotti inesperti e nevrotici come Dijsselbloem, forse per non finire rottamato o perché logorato egli stesso da decenni di mediazioni. Chissà. Comunque è certo che la scorsa settimana sono stati commessi errori tattici da parte della Ue che hanno favorito l’incarognirsi di Tsipras e lo squagliarsi del parolaio Varoufakis. E’ arrivato il momento, dunque, di usare sangue freddo e intelligenza. Chi ce li ha, li tiri fuori.

Stefano Cingolani

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