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I ministri della Difesa di Italia, Francia e Germania si sono formalmente impegnati nello sviluppo di un drone trinazionale, prevedendo in futuro di associare nel progetto altri Paesi membri della Ue che ne facciano richiesta.

Eccellente idea, per tutta una serie di motivi sui quali ci si potrà dilungare in altra occasione ma, che sostanzialmente configurano un passo avanti nella politica comune degli armamenti e nell’edificazione, passo dopo passo, di una identità europea nel settore della sicurezza e della difesa.

Ciò su cui invece conviene fin d’ora fare una riflessione è l’architettura finale della joint venture da disegnare nei mesi a venire, ossia sugli accordi tecnici su cui governi ed industria dibatteranno, in particolare sulla suddivisione dei lavori, per ora individuati solo quantitativamente in un 33% a testa. Al momento buono invece si dovrà decidere il tipo di lavorazioni da ripartire, nel caso specifico le più pregiate sono la sensoristica, i sistemi di guida, la tecnologia per far entrare il drone nella circolazione aerea generale, tutte aree soggette a sviluppi successivi e quindi con interessanti potenziali mercati.

Sarebbe singolare se il nostro Paese non pretendesse in questa occasione un ruolo guida ed una ripartizione vantaggiosa della torta, ha buoni ed incontestabili motivi per rivendicare, una volta tanto, un dividendo di cui nessuno degli altri due partner può appropriarsi senza compiere un sopruso.

Purtroppo invece, al tavolo delle trattative è facile immaginare che né Francia né Germania siano disposte ad accettare una posizione ancillare rispetto alla nostra industria; riflessi condizionati di vecchia data, sopratutto dei francesi, mai disposti ad una posizione subordinata, soprattutto se leader dovesse essere l’Italia. Questa guerra però va combattuta, dal nostro governo, dai nostri militari, dalla nostra industria.

Eccone i motivi: nessuno come le nostre Forze Armate può rivendicare in Europa una professionalità così marcata nell’impiego dei droni, entrati nel nostro orizzonte operativo a dicembre 2004, in Iraq, con la missione di sorveglianza in occasione di quelle prime elezioni politiche generali; da allora non si sono più fermati, Afghanistan e Libia sono stati i teatri di impiego successivi, a tempo perduto sono anche stati impiegati in ambiente domestico per scopi non militari, primo fra tutti quello per fini di giustizia, a disposizione della magistratura e delle forze di polizia giudiziaria.

Fuori dalla mischia della quotidianità operativa, sono stati poi intrecciati e mantenuti contatti proficui di carattere tecnico ed operativo con Israele e Stati Uniti, gli unici player a livello mondiale dalla cui esperienza si potesse trarre qualche vantaggio nella messa a punto dei sistemi d’arma e nelle loro operazioni.

Anche nel settore normativo, quello che dovrà regolare le operazioni, comprese quelle non militari e fuori dagli spazi aerei segregati, l’Italia si è mossa in anticipo rispetto a tutti, mettendo a punto i primi disposti di legge regolatori.

Cosa hanno fatto gli altri nel frattempo? Nulla o quasi. La Francia è ai primi vagiti, con l’ultima missione militare in Mali lo stesso presidente francese ha dovuto riscontrare la carenza capacitiva del suo strumento militare e la scarsa preveggenza dei suoi generali, ricorrendo – chissà quanto gli sarà costato – ad un ordinativo di sistemi agli Stati Uniti in fretta e furia. Stessa sottostima in Germania.

Perché quindi questi due Paesi dovrebbero pretendere la leadership nell’iniziativa? Quale know how i loro stati maggiori possono trasferire ad Airbus o a Dassault nella definizione dei requisiti tecnici ed operativi di un drone che ambisce a collocarsi ad gradino superiore rispetto all’esistente?

La nostra industria tra l’altro si è già cimentata con un certo successo nello sviluppo di droni, quello di Selex Galileo, il Falco e la sua evoluzione stanno affrontando già da anni i mercati, anche Alenia ha messo a punto due prototipi.

Su questo dovrebbero riflettere coloro che non hanno protetto una nostra risorsa strategica, dai magistrati che, perseguendo tesi indimostrabili ed indimostrate, hanno dato un discreto contributo all’attuale stato della holding della difesa, dai governi che non hanno messo del tutto al riparo il più importante asset dell’aerospazio, al management attuale, impegnato nella messa a punto di una importante ristrutturazione.

Situazione bifronte quindi, componente operativa all’avanguardia, con tutte le carte in regola per affrontare il confronto, componente industriale cui fare un tagliando mirato per andare uniti all’appuntamento. Ed auspicabilmente un governo che una volta tanto segua con attenzione e, se serve, coordini e disciplini lo svolgimento degli eventi.

cia

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