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Solo pochi mesi fa, alla vigilia della delega sul Jobs act, Camusso, Landini, Angeletti tuonavano che se si fosse intervenuti sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori avrebbero messo in campo tutte le iniziative possibili, dallo sciopero, ai ricorsi giudiziali, al referendum abrogativo. E così è stato con lo sciopero generale del 12 dicembre scorso (assente la Cisl).

Poi ai primi di marzo è arrivato il contratto a tutele crescenti, che di fatto ha cancellato l’art. 18 per i neoassunti ma, se si esclude qualche iniziativa isolata, nessuno minaccia di tornare in piazza o si è messo a lanciare anatemi.

A chi come me ha ancora nitidamente impressi nella memoria gli anni in cui si discuteva del progetto di riforma di Marco Biagi, con gli scioperi, le manifestazioni, i cartelloni affissi in tutta Italia con la scritta “Giù le mani dall’art. 18” e i continui attacchi sui media, la pacatezza dei toni di questi giorni, fatta di garbate critiche sui social, sui siti e nei convegni, suscita sentimenti diversi: di rabbia, ricordando il tragico epilogo delle vicende del decennio passato; di sollievo, nel pensare che forse la stagione dello scontro ideologico aprioristico e strumentale è finita; di stupore, perché un conto è la pacatezza dei toni un conto è la rassegnazione.

Perché, sia chiaro, il contratto a tutele crescenti non è un nuovo contratto, ma solo un nuovo e più debole regime di tutela contro i licenziamenti, applicabile ai neoassunti. Con le nuove regole la reintegrazione si applica solo in caso discriminazione (difficile da provare in giudizio) o quando il lavoratore riesca a dimostrare che il fatto disciplinare contestato non sussiste. Per il resto, e cioè nella stragrande maggioranza dei casi, l’impresa che decide di licenziare corre un rischio irrisorio: due mensilità di retribuzione per ogni anno di anzianità se il licenziamento risulta ingiustificato (con un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro), una mensilità in caso di vizio formale (con un minimo di due e un massimo di dodici). Nelle piccole imprese gli importi si dimezzano e il massimo è sempre di 6 mensilità. In più il decreto aggiunge un meccanismo di incentivazione alla conciliazione che consente al datore di lavoro di chiudere la faccenda ancora più a buon mercato prevendo il contenzioso.

Non credo che il sindacato non abbia capito che il contratto a tutele crescenti ha definitivamente ucciso il posto fisso e che, tra riduzione delle tutele contro i licenziamenti e liberalizzazione di contratti a termine e somministrazione, il mercato del lavoro italiano assomiglia sempre più ad una fiera delle opportunità (o della precarietà, a seconda del punto di vista), nella quale le imprese possono liberamente scegliere tra diversi tipi di contratti flessibili quello più funzionale alle loro esigenze. Per ciò tutto questo silenzio del sindacato mi pare un po’ surreale.

E’ vero, ormai la strada è stata imboccata e il governo non farà di certo marcia indietro. Dunque scioperare, protestare e battere i pungi sul tavolo non serve più. Qualcosa, però, il sindaco può ancora farlo. E anche efficacemente. Le norme sul contratto a tutele crescenti, come tutte le norme lavoristiche, sono infatti derogabili in senso migliorativo.

Il sindacato potrebbe quindi ripristinare almeno in parte le tutele eliminate dal legislatore agendo in sede di contrattazione collettiva, non solo nazionale ma anche aziendale. Ad esempio elevando i minimi di risarcimento, estendendo la reintegrazione al licenziamento disciplinare sproporzionato, graduando la sanzione alla gravità del vizio del licenziamento, prevedendo una tutela più intensa in caso di inesistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per motivo oggettivo, casomai concedendo in cambio alle imprese un po’ di “flessibilità buona” e un supporto su ciò che conta davvero, come orari, organizzazione del lavoro e mansioni, valorizzazione del merito, incentivazione della produttività, lotta all’assenteismo e così via.

L’importante è volerlo.

Contratto a tutele crescenti, tutte le amnesie dei sindacati

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