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Le grandi aziende tecnologiche americane stanno facendo pressioni sull’amministrazione Trump affinché vengano adottate misure che inducano l’Australia a rivedere le sue politiche regolatorie in materia di social media e piattaforme di streaming. La Computer and Communications Industry Association (CCIA), che rappresenta oltre 20 giganti del settore tecnologico – tra cui Meta, Google, Apple, Amazon e X – ha presentato una formale istanza all’Ufficio del rappresentante commerciale degli Stati Uniti. Questo documento, inserito nel più ampio quadro della revisione della politica commerciale americana, evidenzia le preoccupazioni riguardo alle proposte normative del governo australiano.

Le norme australiane sotto la lente

Il cuore della disputa riguarda il cosiddetto “News Bargaining Incentive”, un meccanismo ideato dal governo australiano che impone alle piattaforme digitali di negoziare accordi economici o, in alternativa, di versare un’imposta specifica per l’utilizzo di contenuti giornalistici. Mentre in passato Facebook e Google avevano già accettato accordi che garantivano compensi agli operatori dei media, la nuova normativa prevede che queste aziende debbano farsi carico di costi aggiuntivi anche in assenza di un effettivo utilizzo di notizie. Secondo i tecnici della CCIA, si tratterebbe di una misura coercitiva e discriminatoria, capace di far lievitare i costi, che attualmente ammontano a circa 250 milioni di dollari australiani all’anno.

Il rischio di ritorsioni

I vertici delle aziende tecnologiche americane, vicini al presidente Donald Trump come dimostrato alla cerimonia di insediamento, hanno trovato nella nuova politica australiana una sfida. Pur non sostenendo apertamente l’introduzione di nuove tariffe, la CCIA suggerisce che misure tariffarie potrebbero essere utilizzate come strumento negoziale per rimuovere le barriere commerciali imposte. Il tema si inserisce in un contesto più ampio in cui le relazioni tra Stati Uniti e Australia sono già state tese, soprattutto dopo che i tentativi australiani di evitare ulteriori oneri doganali su altri prodotti, come l’alluminio e l’acciaio, non hanno avuto esito positivo.

Le implicazioni globali

Oltre al caso australiano, la CCIA – la stessa che aveva criticato il sistema anti pirateria voluto dal governo italiano (Piracy Shield) – lamenta restrizioni simili proposte in altre giurisdizioni, citando il digitale tax canadese e il regime regolatorio dell’Unione europea. Un ulteriore punto di contesa riguarda le regole sulle quote di contenuti locali per i servizi di streaming, che potrebbero costringere aziende come Netflix a incrementare gli investimenti in produzioni locali, rischiando così di compromettere una fetta significativa dei ricavi annuali generati nel mercato australiano.

Scontro tra giganti. L’Australia sfida la Silicon Valley che chiama in causa Trump

Le aziende tecnologiche americane, rappresentate dalla CCIA, hanno avviato una campagna di lobbying presso l’amministrazione Trump per contrastare le nuove normative australiane sui media digitali. Al centro della disputa c’è il meccanismo News Bargaining Incentive e le proposte di quote sui contenuti locali per gli streaming

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